Dio è madre

di don Sergio Frausin

 

«La compassione verso di noi è divenuta madre. Il Padre per aver amato si fece donna».

(Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur 37, 2).

L’incarnazione dell’amore paterno e materno di Dio, offerta di tenerezza, vera ricchezza, per ogni essere umano.

«Guarda i misteri dell’amore e allora contemplerai il seno del Padre che soltanto l’unigenito Figlio di Dio ha manifestato1. È anche lui stesso il Dio amore2 e da amore per noi fu preso (ethȇráthȇ). E, mentre l’ineffabilità di lui è Padre, la compassione verso di noi è divenuta madre. Il Padre per avere amato si fece donna, e di questo è grande segno colui che egli generò da se stesso. Per questo anche lui discese, per questo rivestì l’umanità, per questo patì volontariamente ciò che è degli uomini, affinché dopo essersi misurato con la debolezza di noi che egli amò3, potesse in cambio misurare noi con la sua potenza. E quando stava per offrirsi in libagione4 e dare se stesso come riscatto ci lascia una nuova alleanza: “Vi do il mio amore” (Gv 14,27; 13,34) […] Per ciascuno di noi ha dato la sua vita che vale l’universo intero: ci chiede in cambio la stessa cosa l’uno per l’altro […]5 Tu, invece, impara la “via eccellente”6 che Paolo indica per la salvezza: l’ “amore non cerca le cose sue”7, ma si riversa sul fratello […] “L’amore copre una moltitudine di peccati8; l’amore perfetto caccia via la paura”9 […] L’amore non viene mai meno»

(Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur?, 37,1-39 [passim])

Nella sua ineffabile trascendenza, Dio «nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il testo greco dice letteralmente che l’Unigenito è «eis tòn kólpon toū patròs (εἰς τoν κόλπον τοῦ πατρoς)» e kólpon significa «seno, grembo, viscere, ventre, utero», dimensione tipicamente femminile dell’origine. Un mistero di intimità unica col Padre da contemplare come matrice di amore, in cui il Figlio eternamente è generato, vive e da cui, con l’incarnazione, viene, si muove e agisce nei confronti dell’essere umano offrendo una relazione, un’alleanza definitiva di amore viscerale generativo, creativo, accogliente e compassionevole, allo stesso tempo paterno e materno. In questa compassione viscerale, in questa misericordia (che nell’ebraico raḥamim richiama proprio l’intimità delicata del grembo materno in cui si è accolti nella massima piccolezza e debolezza)10, Clemente Alessandrino coglie la femminilità e la maternità dell’amore di Dio: «La compassione verso di noi è divenuta madre. Il Padre per avere amato si fece donna, e di questo è grande segno colui che egli generò da se stesso». La compassione come tenerezza unisce le esperienze della paternità e della maternità di Dio (cfr. Sal 103, 13; Ger 31, 20; Is 66, 13; Lc 15, 20). Sembra sia stato proprio il padre alessandrino il primo a stabilire questo parallelismo di immagini di cui l’insegnamento della Chiesa fa tesoro. «Chiamando Dio con il nome di “Padre”, il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura» (CCC 239). Mentre le metafore femminili indicano spesso nei padri della Chiesa la natura umana del Verbo incarnato, con la figura della madre Clemente stesso si riferisce a volte alla Chiesa che attira nelle sue braccia i suoi figli piccoli per consolarli (cfr. Is 66,13)11.

Il Dio raccontato da Gesù Cristo, per propria iniziativa si lascia prendere dall’amore per l’uomo, si coinvolge con il patire dell’uomo, si lascia com-muovere simpateticamente dal suo vissuto e per questo «patisce volontariamente ciò che è degli uomini», ne accoglie e condivide la condizione con tutta la sua debolezza, senza tirarsi indietro dal confronto con i suoi squilibri, conflitti e contraddizioni.

In essa offre se stesso dando il suo amore perché la vita di ciascuno, nessuno escluso, sia riscattata dalla schiavitù della paura di perdere, della paura di non avere mai abbastanza, e la salvezza sia possibile per chiunque, in qualunque situazione si trovi, compresi i ricchi a cui si riferisce Clemente nel Quis dives salvetur? (un’omelia su Mc 10,17-31). Essi, sulla base degli avvertimenti del Vangelo (cfr. Mc 10, 25; Lc 18,25), erano maggiormente a rischio di lontananza da Dio e dal suo Regno in quanto portati a chiudersi nell’autosufficienza resa possibile dai loro possessi. Il riporre tutta la propria fiducia nella ricchezza come padrone del proprio cuore (cfr. Mt 6, 24) fa vivere solo per se stessi, in continua preoccupazione e paura, in continua difesa dagli altri e da Dio stesso, percepiti come potenziali minacce per ciò che si possiede.

Amando l’essere umano con il dono totale e benevolo di sé (philantropía), il Signore suscita e chiede in cambio amore che dona se stesso (antagapãn): la vita dell’uomo assume così lo stile, il senso della risposta al dono libero e incondizionato di Dio con gesti concreti di amore generoso e gratuito, con quell’agápē (cantata da Paolo in 1Cor 13,4-8) libera dalla paura di non-avere, quell’agápē che non cerca il proprio interesse egoistico, non afferma se stessa, ma si riversa sull’altro riconosciuto e accolto come fratello e sorella in Cristo. Questa via è da percorrere senza scoraggiarsi mai nella conversione, perché questo amore caritativo fervente copre e vince una moltitudine di peccati (cfr. 1Pt 4,8), scaccia la paura (cfr. 1Gv 4,18). È questo il bene eterno, la vera ricchezza a cui anche il peccatore più ripiegato sui propri averi in difesa del patrimonio è invitato ad aprirsi, sottraendosi alla seduzione di altre ricchezze terrene che rendono prigionieri di ciò che si possiede, rendendosi conto che Dio Padre ricco di misericordia e di compassione (cfr. Ef 2,4; Gc 5,11) è pieno di tenerezza materna e paterna verso tutti (cfr. Sal 145,9) e proprio per questo amore che perdona, non viene mai meno ed è fedele per sempre, di nessuno si dimentica e nessuno abbandona.

1 Cf. Gv 1,18.

2 Cf. 1Gv 4,8.16.

3 Cf. Gv 13,1

4 Cf. 2Tm 4,6.

5 Cf. Gv 15, 13.

6 1Cor 12,31.

7 1Cor 13,5.

8 Cf. 1Pt 4,8.

9 1Gv 4,18.

10 Cf. Es 34,6-7; cf. Sal 103,8; 145,8.

11 Cf. S. Barnay, «L’amore di Dio. Inchiesta tra le immagini della tradizione cristiana», Osservatore Romano, 2 febbraio 2013, in http://www.osservatoreromano.va/it/news/lamore-di-dio

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