Grande principio

di Michela Brundu

 

Un luogo comune dipinge i gesuiti spesso ai ferri corti con la liturgia. Oggi questa narrazione popolare va aggiornata con la postilla «a meno che il gesuita non sia il Papa».

Francesco ha lo sguardo lungo, largo e profondo sulla Chiesa e sul mondo. Tra guerre, intere o a pezzi, popoli che migrano, muri, fame, persecuzioni dei cristiani in troppi paesi, mi sono detta spesso: il Papa non avrà tempo per sbrogliare nodi liturgici.

Poi, miracolosamente, il tempo lo ha trovato. E non certo per una questione cara a pochi specialisti: come al solito lui punta al nocciolo dei problemi. È il primo pontefice figlio del Concilio e si vede. Per lui il Concilio è cosa fatta e acquisita. Quindi prende la penna e scrive che nel cuore stesso del disegno conciliare c’è un «grande principio»: che la liturgia si affranchi dal ritualismo e torni a respirare a pieni polmoni, riscoprendo di essere quella soglia su cui il credente si affaccia al Mistero, quel luogo di accoglienza e misericordia incarnate, quel tempo che prefigura «come in uno specchio» la celebrazione senza fine della gloria di Dio a cui tutti sono invitati. Un grembo, dunque, in cui la Parola si incarni in chi l’ascolta perché «è Cristo che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7). Ecco perché centrale è l’uso della lingua materna, familiare e viva, che scava nell’intimo e giunge direttamente al cuore di carne.

Il motivo di questo intervento papale risiede nella situazione stagnante che si è venuta a creare. Negli ultimi cinquant’anni, infatti, la paura di guardare in profondità dentro forme rituali non più significative, la paura di “protestantizzare” la liturgia cattolica, la paura di… non si sa bene cosa, hanno frenato il cammino. Noncuranti del fatto che solo rinnovare il linguaggio può favorire la Tradizione – cioè la trasmissione fresca e viva del patrimonio della fede e della Parola di Dio – , alcuni hanno finito per architettare un meccanismo che, di fatto, ha bloccato le nuove traduzioni liturgiche. Questo processo è culminato nell’Istruzione “romana” Liturgiam authenticam (2001), con cui si approda a una rilettura del Concilio che, sostanzialmente, segna un passo indietro nel processo della riforma liturgica. Si cristallizza, infatti, il procedimento di traduzione: tutto deve passare da Roma e lì ricevere il timbro-qualità. Conseguenza: tutto fermo e sgradevoli bracci di ferro tra le Conferenze episcopali dei vari paesi (che avevano già preparato fior di traduzioni e che dovevano lasciarle ammuffire nel cassetto) e Roma (cioè la Congregazione per il Culto divino), che non si decideva a sbloccarle.

Ora Francesco, che può farlo nella sua piena autorità, si esprime col motu proprio Magnum principium e dice che no, che il Concilio aveva un’altra mens. Vanno restituite dunque ai vescovi locali fiducia e libertà; a Roma spetterà una conferma generale dei testi. Sembra poco, ma non è così. Già nel discorso alla Settimana liturgica nazionale (24 agosto 2017) Francesco aveva fatto una breve storia della riforma liturgica concludendola con toni di vibrante fermezza: «Dopo questo magistero, dopo questo lungo cammino possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile».

È consapevole, il Papa, che anche oggi qualcuno cerca di annacquare le scelte scaturite dal Concilio forzando l’«ermeneutica della continuità» ed evocandola con dolo al solo scopo di sfumare, indebolire e alla fine rendere vano ogni processo. A volte questa operazione fraudolenta viene perpetrata da qualche pennivendolo che altera senza vergogna perfino il magistero papale (come se «irreversibile» non volesse dire «irreversibile»!). Ma sono opinionisti senza alcuna autorità e, spesso, senza autorevolezza. A volte, ed è più grave, la stessa macchineria viene portata avanti da chi dovrebbe affiancare e sostenere il Santo Padre. Il cardinal Sarah, dall’alto del suo scranno di prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha tentato di edulcorare il motu proprio del suo diretto superiore (il cui scranno, vale la pena ricordarlo, è un gradino più in alto), facendo dire al Papa che nulla è cambiato, che «recognitio» e «confirmatio» sono sinonimi.

«Eh no», ha sbottato stavolta Francesco. E così ha messo a posto il cardinale, ricordando a tutti che certo ogni vescovo va ascoltato con religioso ossequio, ma – a voler essere cattolici – ce n’è uno che va ascoltato più religiosamente e ossequiosamente degli altri, specie se fa affermazioni magisteriali. E non è quello più simpatico o in linea con la propria idea (nostalgica o progressista) di Chiesa. È, guarda un po’, il vescovo di Roma.

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