La mortificazione corporale

di Mario Ravalico

 

Il tema del sacrificio e più ancora della mortificazione e della penitenza si ritrova spesso negli scritti di don Francesco Bonifacio. È una costante del suo cammino e della sua ascesa spirituale. I propositi assunti durante la sua partecipazione agli esercizi spirituali e ai ritiri mensili ne sono una conferma, come pure le riflessioni che fissava sul suo Diario personale.

«Continuare con due propositi e due mortificazioni ogni giorno» (ritiro mensile 29 gennaio 1942).

«Ogni giorno qualche mortificazione corporale» (ritiro mensile 27 luglio 1942). «Continuare ogni giorno nel proposito della penitenza» (ritiro mensile 27 marzo 1944). «Come sacerdote rappresento Gesù sull’altare, […] Gesù vittima per i nostri peccati. Così io devo prendere la croce con Gesù e portarla per il bene di tante anime. Non temerò il sacrificio fino alla morte» (ritiro mensile 28 dicembre 1944).

«Maggiore preghiera e penitenza» (ritiro mensile 11 luglio 1945).

«Si comincia col concedere un po’ di comodità al nostro corpo e si cadrà nel peccato. È necessario castigare il nostro corpo e non falsificare le intenzioni» (esercizi spirituali).

Queste riflessioni trovano poi concreto e, insieme, tremendo riscontro con quanto egli scrive tra i suoi propositi pratici, in appendice all’atto di Consacrazione a Gesù Cristo Sapienza incarnata per le mani di Maria in data 27 dicembre 1942, sesto anniversario della sua ordinazione presbiterale: «Indossare la catena di ferro ai piedi». Si tratta del cilicio che don Francesco effettivamente portava: una tremenda mortificazione! (*)

C’è ancora una conferma di questa sua scelta; ce la dà un suo confratello quasi coetaneo, don Luigi Parentin, che in uno scritto reso pubblico sulla stampa negli anni Novanta, così si esprimeva: «Quel sacerdote era un santo e aveva il merito di non farlo capire, tanto era privo di doti appariscenti, dimesso, modesto, umile con tutti, uomo di orazione, di penitenza, fedele alla Chiesa, al Papa, al Vescovo. Aveva preso sul serio il suo sacerdozio. Portava sulle carni il cilicio. Era convinto che le anime si salvano per grazia di Dio ma pagando di persona, con la preghiera, l’opera e l’esempio nostro…».

Quel cilicio quasi certamente lo tolse dalle sue caviglie quell’11 settembre quando, nella chiesa di Grisignana, don Francesco incontrò don Giuseppe Rocco per ricevere, attraverso di lui, la misericordia del Signore nel sacramento della riconciliazione. È una deduzione questa, non una certezza: quello strumento di dura mortificazione corporale venne ritrovato di recente nella stanza di mons. Rocco, tra le cose che egli gelosamente custodiva, contenuto in una busta con la scritta Cilicio reliquia. Sicuramente di don Francesco. Don Rocco, pur avendo fatto cenno in diverse occasioni alla scelta di don Francesco di portare il cilicio, mai disse una parola su dove questa “reliquia” si trovasse.

Ecco perché viene da pensare che don Rocco, giunto a Grisignana da appena dieci giorni, proprio nella confessione finale consigliò don Francesco di togliersi quel doloroso strumento di penitenza, facendoselo consegnare, probabilmente perché la vita era già dura e difficile senza dover imporsi altri sacrifici. E lo conservò gelosamente e segretamente per tutta la sua lunga vita. Come una vera reliquia, lasciandolo a noi come segno tangibile della santità di don Francesco.

La speranza è che un giorno non lontano quel cilicio, assieme ad altre reliquie del nostro beato, possano trovare degna sistemazione in una teca nella cattedrale di San Giusto dove egli venne ordinato prete e proclamato beato.

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