La piazza, i cattolici e il Paese

di Giovanni Grandi

 

La manifestazione dello scorso 30 gennaio al Circo Massimo non ha chiuso il dibattito sul disegno di legge sulle Unioni civili, ma senz’altro ne ha rilanciato un altro, quello del rapporto tra i cattolici e il Paese, tra la Chiesa – come popolo, gente, battezzati, non riduttivamente intesa come “i vescovi” – e i decisori politici. Il ricorso alla piazza è indubbiamente un modo per declinarlo, un modo che però gioca la sua efficacia su due elementi: la chiarezza del messaggio e l’onestà dei numeri. E sono entrambe cose che in anche in occasione del recente family day sono purtroppo mancate.

Dire di “sì” alla famiglia come se questo comportasse un “no” a tutto il resto è una semplificazione troppo forte. In quel “tutto il resto” ci sono elementi chiaramente inaccettabili per la coscienza cristiana, come ad esempio l’idea che esista un qualche “diritto” ad avere figli. Ma ci sono pure aspetti che vanno affrontati senza ulteriori tentennamenti, come ad esempio l’opportunità civile di definire anche per le coppie omosessuali una configurazione giuridica che protegga l’impegno affettivo, lì dove questo entra in una prospettiva di esclusività e di durata. Quale significato assumeva il “no” della piazza su quest’ultima questione? Era un “no” a qualsiasi forma di riconoscimento? Oppure un “no” solo a un riconoscimento-fotocopia della disciplina del matrimonio? Difficile dirlo, perché la piazza non è per sua natura il luogo delle distinzioni. Eppure queste distinzioni per molti hanno fatto la differenza.

Anche sui numeri le cose non hanno funzionato bene: perché dichiarare la cifra fisicamente impossibile di 2 milioni di partecipanti? Perché esporsi alla inevitabile gogna mediatica che sbeffeggia chi mente sui numeri? Le più ipotizzabili 300.000 (o 70.000?) presenze sono forse sembrate un messaggio “debole” anche ai promotori, per indurli a ritoccare le cifre così vistosamente?

Insomma, il ricorso alla piazza – legittimo, sia chiaro – non ha convinto e non ha suscitato il massiccio entusiasmo che forse ci si aspettava.

Indipendentemente dagli esiti dell’iniziativa e dalle questioni sul tavolo, quel che però non si può ignorare è che quantomeno una parte del “mondo cattolico” ha elaborato e consolidato un proprio modo di interloquire con i decisori politici e con il Paese. È il modo di chi non si sente adeguatamente rappresentato nelle istituzioni civili e ritiene di dover alzare la voce per non veder scomparire le proprie istanze.

È l’unico modo che oggi i cattolici hanno a disposizione per esserci sulla scena pubblica?

La domanda non è retorica, perché questo va riconosciuto: dire di “no” alla piazza – per quanto ad una specifica piazza, fatta di troppi temi e di numeri ballerini – non è già indicare una strada diversa per affrontare pubblicamente questioni di indubbia serietà.

Esserci sulla scena pubblica significa, ovviamente, molte cose: vuol dire sviluppare un pensiero sui problemi concreti della vita e ancora non affrontati o irrisolti sul piano civile, vuol dire chiamare al confronto chi già sta pensando di risolverli altrimenti, istituire tavoli di lavoro coinvolgenti e non ideologici, elaborare proposte il più possibile inclusive e certamente anche misurarsi strada facendo (non all’ultimo momento) con i rappresentanti eletti, o almeno con quelli disponibili a confrontarsi con i cittadini in modo sistematico e non episodico.

La partecipazione – di chiunque, non solo dei cattolici – al dibattito pubblico non può cioè essere concepita come un fuoco d’artificio, che esplode a un certo punto condensandosi in un “no” o in un “sì” sfavillante e scoppiettante, senza sapere bene chi, dove e come abbia elaborato la posizione o la proposta che viene avanzata per sollecitare o frenare il lavoro parlamentare. Non ha senso invocare la partecipazione popolare ai dibattiti civili riducendola ad un momento terminale di assenso o dissenso per un “pacchetto completo”, perché così facendo si spegne la coscienza critica, illudendosi di incoraggiarla. Specialmente la coscienza critica cristiana ha bisogno di un continuo impegno formativo, in grado di connettere intuizioni spirituali e pratiche di vita: tutto questo chiaramente richiede tempo, studio e confronto comunitario. È una fatica, indubbiamente, ma senza questo lavoro di background, si ricade nella ormai nota logica del “monsignore-pilota” (prete o laico che sia), che solleva tutti dalla fatica del pensare, indicando minuziosamente il da farsi in ogni circostanza.

Anche nel “mondo cattolico” rimane allora da mostrare se ed eventualmente come sia possibile sollecitare autentica partecipazione e interloquire con i decisori politici (anche) altrimenti che in piazza – ma sempre in modo trasparente e pubblico –, nel tempo che separa una tornata elettorale dall’altra. Elaborare questa alternativa e praticarla è urgente e necessario: lo è nel Paese, perché non dimentichiamo che ultimamente sono tante le anime che ricorrono sempre più alla piazza, semplificando i messaggi e ritoccando i numeri. Lo è nelle comunità cristiane, perché senza dilatare gli spazi, i tempi e gli strumenti di partecipazione, davvero la piazza rischia di rimanere l’unica modalità di rapportarsi al Paese.

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