Le premesse alle promesse di Dio

di Francesco Crosilla

Chiunque ha sentito parlare dei dieci comandamenti. Spesso letti in chiave cristiano-cattolica, o in chiave etico-laica, rappresentano in ogni caso una testimonianza spesso percepita come fredda e normativa. Con altri occhi, quelli della sapienza di Israele, possiamo addentrarci in una rivoluzione copernicana. È quello che fa Haim Baharier nel suo libro Le Dieci Parole edito per i tipi di San Paolo. L’autore, francese di origini polacche, è oggi uno dei più noti esponenti del pensiero ebraico. Matematico, ma abilitato anche alla psicanalisi, tiene lezioni in giro per il mondo (alcune delle quali raccolte nel libro La Genesi spiegata da mia figlia, edito da Garzanti) .

Il libro è complesso. Un testo poetico, a volte duro come la roccia del deserto; parole scritte in maniera misteriosa, che vanno masticate, lette e rilette. Eppure da questa operazione di rielaborazione, che passa dalla mente al cuore e viceversa, nasce via via un pensiero illuminante: cioè che queste parole, lungi dall’essere un codice di condotta, sono il condensato dell’esperienza di un popolo che si sta formando, e che solo in questo contesto acquistano il loro significato.

Dice Baharier: «Parlare di Dieci Comandamenti mi pare ingiusto. Non ci sono imperativi, nessuna imposizione. Quei verbi portano promesse che si realizzano». Promesse che nascono da premesse; con grande capacità letteraria l’autore ci fa esplorare le dieci parole presenti nel libro dell’Esodo al capitolo 20, collegandole con il capitolo 19. In Esodo 19 infatti nascono le premesse che poi nel capitolo successivo diventano promesse. Premesse che sono trasfigurate da YHWH; basi solide che tramite l’espressione «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» diventano promesse certe.

Le dieci parole infatti sono espresse al futuro: è la promessa di una capacità liberata; un dono gratuito, la possibilità data al popolo di vivere libero. Non ci sono divieti o obblighi, ma la sicurezza della memoria di essere stati liberati permette di condurre un’esistenza secondo la promessa fatta ad Abramo.

Grazie ad un’accurata lettura del testo originale e delle sfumature dei termini, Baharier ci conduce a incontrare i maestri di Israele, la sapienza chassidica, e scopriamo che ogni parola rimanda ad altre storie bibliche; scopriamo che l’idolatria (sempre in agguato) è una prostrazione dell’uomo nei confronti di se stesso, un’esaltazione dell’umano come generatore di vita; insomma un delirio smisurato che disperde.

Come afferma lo stesso autore: «Secondo la tradizione chassidica un maestro insegna non per trasmettere ma per sapere cosa ha imparato. Procede volentieri per domande, più preziose di qualsiasi risposta».

Ed effettivamente è così: alla fine del libro si pensa di non aver capito nulla, e allora si ricomincia. Ma è proprio in questo percorso che si entra nel vortice ascendente della sapienza; quella che scuote le certezze (anche religiose) per portare alla verità solida, a ciò che fa sentire liberi.

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