Neželjena – Non voluta

di Giovanni Grandi

 

La notizia della campagna contro l’aborto selettivo delle nasciture femmine in Montenegro è rimbalzata in questi giorni su molti quotidiani.

L’ha evidenziata su «Il Piccolo» Stefano Giantin, collocandola nel quadro delle denunce delle disparità di considerazione tra il femminile e il maschile: «“Neželjena”, non voluta, è il leitmotiv della campagna lanciata dall’Ong Centro per i diritti delle donne, che ha denunciato che in Montenegro “ogni anno viene effettuato un gran numero di aborti selettivi”, pratica vietata ma che rimane significativa in un Paese che “dà più valore ai bambini maschi che alle femmine” per il retaggio di un’arcaica cultura patriarcale».

Nel commentare la notizia molte firme sono approdate direttamente alla questione di genere, come se lo scandalo principale fosse appunto la disparità di trattamento: davvero non ci rimane nulla da dire sull’aborto in sé?

Gian Antonio Stella ha ricostruito una geografia della pratica dell’aborto selettivo per «Il Corriere della Sera», avvertendo a differenza di altri la necessità di premettere che la cosa «non c’entra nulla con le scelte tormentate e strazianti di tante donne che rivendicano quel sofferto diritto di decidere, ma ha a che fare piuttosto con lo shopping (“prendiamo il corredino azzurro o quello rosa?”) e con la “cultura dello scarto” su cui martella papa Francesco».

È interessante quel «non c’entra nulla», perché suona come una risposta anticipata agli ovvi pensieri che sarebbero sorti in chi avesse letto la notizia facendo il classico “due più due”. Stella, a differenza dei più, ha certamente avvertito quel che si porta dietro la campagna “Neželjena”: nel momento in cui parliamo di “bambine”, anche se nello specifico quel che denunciamo è la disparità di trattamento rispetto ai “bambini”, ormai abbiamo varcato la soglia del riconoscimento di persone già titolari di diritti, in primis di quello di venire alla luce. Va da sé che lottare per il diritto alla parità di trattamento non può appunto significare assicurarsi che cresca il numero degli aborti di maschi, ma piuttosto adoperarsi per far recedere la pratica abortiva in sé.

Stella ha ben visto che questa volta la battaglia di civiltà per la parità di genere si porta inevitabilmente dietro la battaglia di civiltà per il diritto alla vita, in una linearità così disarmante che non occorrono articolati ragionamenti filosofici per cogliere il nesso tra le due cose. Ha intuito che scandalizzarsi per l’aborto di una bambina è scandalizzarsi per l’aborto simpliciter: lo scandalo della disparità si innesta sullo scandalo dell’uccisione, ma è lampante che il primo non può essere più grave e più radicale del secondo. Oppure saremo così cinici da ignorare il dramma maggiore, sfruttandone solo l’impatto emotivo per rinforzare la protesta contro il «retaggio di una arcaica cultura patriarcale»?

Stella deve aver avuto presenti questi nessi nel presentare la questione, eppure non ha trovato la libertà culturale di farli emergere, lasciando che poi fosse il lettore a misurarsi con il problema della normalizzazione dell’aborto e con la sua cancellazione dalla lista dei temi che è legittimo mettere in discussione. Si è sentito in dovere di premettere quel «non c’entra nulla», quasi a voler tracciare una sorta di barriera mentale perché il lettore evitasse di fare “due più due” e di correre verso la saldatura tra le due battaglie di civiltà.

Proprio questo tentativo di distinguere le situazioni, provando a delimitare almeno una zona franca in cui l’aborto in sé risultasse fuori discussione, suona però come un riconoscimento importante, forse a denti stretti, che si potrebbe disambiguare così: la lotta in favore della bambina che potrebbe venire alla luce non può non portarsi dietro quantomeno un punto di domanda sulla sostenibilità di un diritto assoluto della donna di impedire che questo accada. Perché è l’assolutezza di questo diritto di vita e di morte sui nascituri – nella nostra forma mentis, di donne e uomini adulti, ben prima che negli ordinamenti – che apre la strada alle “questioni di corredo” e alla “cultura dello scarto”.

Siamo pronti culturalmente per recedere da certe “conquiste” del femminismo, ora che ci accorgiamo – dicendo “bambine”, non “feti” o altro – che possono essere anche l’esercizio del potere di donne adulte su donne agli esordi della loro avventura esistenziale?

Siamo pronti a riconoscere che le disparità di potere che possono esserci tra uomini e donne sono certamente un problema, ma nel problema più grande della disparità di potere tra l’adulto e il nascituro, nel problema più grande della precedenza che noi accordiamo per principio all’uomo (maschio o femmina) già fatto sull’uomo (maschio o femmina) che sta per nascere?

Benvenuta campagna “Neželjena”, se favorirai una riconsiderazione culturale della responsabilità che abbiamo verso tutte le vite in gestazione.

 

Http://www.corriere.it/esteri/17_novembre_20/strage-silenziosa-montenegro-non-paese-bambine-c7cc28ba-ce44-11e7-a3ca-40392580f143.shtml

 

http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2017/11/19/news/le-figlie-mai-nate-del-montenegro-quando-l-aborto-e-di-genere-1.16138029?ref=search