Restare umani al tempo dei migranti

di Fabiana Martini

 

A cinque anni dalla visita di papa Francesco a Lampedusa, dove per la prima volta parlò della globalizzazione dell’indifferenza; al termine di un mese, giugno, che ha registrato dieci naufragi e 557 vittime

(1 su 7 non ce l’ha fatta, l’anno scorso nello stesso periodo a non farcela era 1 su 38); in un momento in cui è ancora forte il dolore per il rifiuto dell’Aquarius e in cui ci è stato ricordato che negli ultimi 25 anni sono state 34361 le persone migranti che hanno perso la vita durante il loro viaggio per raggiungere l’Europa (come se la città di Gorizia fosse stata rasa al suolo); nel giorno in cui apprendiamo dell’ennesimo naufragio al largo delle coste libiche, in cui hanno perso la vita una madre e il suo bambino, tornare alla testimonianza che Giusi Nicolini, già sindaca di Lampedusa, ha portato a Trieste in occasione della rassegna “Rose Libri Musica e Vino” fa bene al cuore. Perché ci ricorda che restare umani è possibile, anche al tempo dei migranti, ma si può fare solo insieme e solo nella verità.

«Lampedusa — ha raccontato Nicolini — è un posto splendido, anche se a lungo è stata rappresentata solo come l’isola degli sbarchi, tanto che molti la immaginavano immersa nel degrado; un posto che da vent’anni accoglie uomini, donne e bambini in fuga e che deve la sua bellezza anche a tutta quest’umanità di cui ha fatto esperienza: persone che arrivano con un carico di disperazione, aspettative, sofferenza, nessuno arriva con la valigia. Hanno abbandonato la terra dove sono nati, dove hanno i loro affetti, per osare il futuro. “Nessuno mette i suoi figli su una barca” dice la poetessa keniota Warsan Shire “a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”. Non sarà certo un accordo con la Libia che li fermerà: gli sbarchi a Lampedusa non si fermano mai, neanche d’inverno, solo che d’inverno la Tv ha altro di cui occuparsi. Ricordo l’arrivo di 25 mila tunisini nel 2011: occuparono tutti gli spazi possibili. Allora furono i lampedusani a farsi carico di tutto: sfamarli, vestirli, aprire loro la casa perché potessero farsi una doccia o ricaricare il cellulare. Perché a salvare le vite in mare te lo insegna il mare. Che riconosce la dignità della vita in gioco. Una dignità senza se e senza ma di fronte alla quale non ci possono essere distinguo, tentennamenti, indugi».

Dinanzi a noi abbiamo una persona, avrebbe detto Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano che di San Giovanni, il parco dove un tempo sorgeva il manicomio e dove si è tenuta la rassegna che ha ospitato Giusi Nicolini in mezzo a seimila rose, fu l’innovatore. E davanti a una persona si può avere solo rispetto, rispetto per la sua dignità. Una bellezza, la dignità di ogni persona, a cui non ci si può assuefare. Una bellezza che stupisce e interpella. Perché la vita vale sempre, in qualunque situazione. Anche quando c’è di mezzo la violenza. Le donne che arrivano, ad esempio, racconta sempre Nicolini, sono state tutte stuprate, nessuna esclusa. Ma il bambino che poi portano in grembo lo amano ugualmente, perché la vita prevale. E continuerà a prevalere solo se riusciremo a non abituarci all’orrore, a non considerarlo inevitabile, normale, necessario. Se sapremo opporci, ribellarci, non restare indifferenti, non renderlo banale. Se, come ci esortava a fare Francesco proprio cinque anni fa a Lampedusa, non ci abitueremo alla sofferenza dell’altro, non penseremo che non ci riguarda, non c’interessa, non è affar nostro. Se sapremo ancora indignarci davanti a un bambino annegato su una spiaggia a poca distanza da noi e passare dalla commozione all’azione. Se lo scandalo non sarà dettato solo dalla sua pelle bianca, ma sarà rinnovato davanti a tre bambini con la pelle nera. Tutti e quattro con la maglietta rossa. Il colore che i genitori fanno indossare ai piccoli, perché siano visti subito in caso di naufragio. Una macchia nel mare che è la nostra coscienza. Una coscienza piena di morti.

Per nessuno di loro nessuno di noi può dirsi innocente. E riprendendo le parole del Papa durante l’omelia tenuta nell’isola dobbiamo chiedere perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Chiedere perdono e da lì ripartire, ogni giorno, con una goccia di umanità.