di Giulio Bartoli
Questo il titolo dell’incontro organizzato dal gruppo FUCI con alcune persone che, all’interno della Caritas diocesana di Trieste, si occupano del servizio accoglienza dei profughi: Alberto Flego (Ufficio immigrazione) e Katarina Modić (Servizio accoglienza). Una chiacchierata che si è svolta presso l’edificio H3 dell’Università di Trieste nello scorso mese di marzo. L’obiettivo era cercare di capire quello che si fa e quello che resta da fare per i migranti nella nostra città. Il risultato è stato un progetto di impegno del nostro gruppo a favore dell’integrazione.
Al di là dei dettagli tecnici riguardanti le procedure amministrative che scandiscono i tempi dell’accoglienza, è sempre molto interessante essere messi di fronte alle persone, con le loro storie e le loro difficoltà. Quanto tempo serve per l’integrazione? Almeno due anni nell’esperienza degli operatori – un investimento di tempo forse più importante dell’investimento in denaro. Un tempo che deve servire per l’educazione, che non si ferma ad insegnare una lingua o l’uso del materasso (che pure può essere necessario…), ma è tesa a fornire gli strumenti per godere pienamente di tutti i diritti della nostra società e per capirne gli associati doveri.
Essere profughi non significa essere santi (anche tra gli occidentali, per altro, è una virtù rara): i pregiudizi li hanno tutti, e tutti sono spesso ridicoli allo stesso modo. Come a noi capita di vivere quella sindrome del fortino assediato immaginandoli competitori alla ricerca di un posto di lavoro o di una forma di assistenza sociale (se va bene), o delinquenti (se va male), una tendenza alle manie di persecuzione riguarda anche loro, gli altri: può succedere, ad esempio, ed è una storia vera, una specie di protesta contro le tazzine marchiate Illy sul fondo, perché ribaltate ricordano la scritta in lettere arabe di Allah – un segno di disprezzo e oltraggio al nome di Dio, sempre schiacciato contro il tavolo.
Cosa abbiamo imparato? Che forse ciò che ci unisce, al di là di tutto, al di là del buonismo umanitario – siamo tutti esseri umani, siamo tutti buoni nel profondo – è anche la stessa sensazione di estrema vulnerabilità. Una debolezza che, diventando paura, può generare violenza e terrore. O al contrario può spingerci al reciproco aiuto e alla collaborazione. Siamo, in fondo, tutti in cerca di salvezza nello stesso mare aperto: tutti sulla stessa barca.