Trivelle sì, trivelle no (la terra dei buchi).

di Gianguido Salvi

 

 

Sfogliando in questi giorni le pagine dei maggiori quotidiani l’occhio mi è caduto spesso sulla discussione oggi in corso relativa al referendum sulle trivelle del prossimo 17 aprile.
Chissà perché nel nostro meraviglioso paese vi è sempre una fatica terribile nell’approcciare non dico scientificamente, ma scientemente problemi che riguardano la politica energetica nazionale. Gli italiani leggono, si informano? Leggendo le statistiche sembrerebbe di no, ma agiscono spesso istintivamente in preda ad una schizofrenia di massa talvolta poco comprensibile.
Abbiamo ancora bisogno dei carburanti fossili? I miei ricordi di giovane studente di geologia mi riportano ai dati citati dai miei docenti dove venivano riportati i dati produttivi di grandi giacimenti petroliferi del Nord Atlantico, nel Central Graben e nel Viking Graben, fonti di ricchezza per l’Inghilterra e la Norvegia, o anche l’enorme pentola sotto la sabbia saudita dal nome di Ghawar, campo petrolifero nella provincia orientale a 100 km dalla città di Dhahran, capace di produrre, alla fine del 2005, 60 miliardi di barili con una produzione giornaliera di 5 milioni di barili (6,25% della produzione mondiale) e di 56.633.693 m³ di gas naturale al giorno, necessari a garantire sviluppo energetico ad una popolazione mondiale crescente e sempre più bisognosa di risorse energetiche.
trivelleEd in Italia quanto petrolio “beviamo”? (vedi grafico) E quanto gas utilizziamo? (circa 441 mld di m3 nel 2015). I dati parlano chiaro, ancora oggi dipendiamo in larga misura dai carburanti fossili. Sì, è giusto, bisognerebbe utilizzare di più le fonti energetiche alternative, i pannelli solari, l’energia eolica, le macchine elettriche, le maree, ma se voglio muovermi, mangiare, scaldarmi, guardare il calcio in TV… no petrolio, no gas, no party.

Sulla questione specifica del referendum, inoltre, potrei provocatoriamente affermare che hanno ragione sia gli ambientalisti che osteggiano le trivellazioni, sia quanti appoggiano l’estrazione di idrocarburi in mare, ma in sintesi il referendum del 17 aprile appare in questo contesto come uno strumento inevitabilmente riduttivo e, come sempre, non garante nella sua sintesi di una trasparenza democratica.
L’impatto ambientale si crea, infatti, nel momento in cui si perfora per estrarre petrolio, gas o idrocarburi in genere, in modo minore quando si sfrutta un giacimento. Il pozzo in mare, se realizzato con tutte le tecnologie moderne, non è inquinante, piuttosto è il cosiddetto “indotto” a creare alti rischi per l’ambiente (vedansi le attività delle navi di carico). Inoltre, in Italia i pozzi che si stanno realizzando sono perforati in verticale, ma tecnicamente si può accedere ai giacimenti anche orizzontalmente, per cui si possono facilmente superare le 12 miglia, per posizionarsi magari a 13 miglia e ricongiungersi ai giacimenti iniziali. Chiudere, infine, un giacimento a metà del suo sfruttamento potenzialmente pone rischi di impatto ambientale elevato. Nel caso, infatti, in cui, raggiunto il quorum, vinca il sì, le compagnie energetiche chiuderanno in tutta fretta i pozzi aperti ma non esauriti, o investiranno nelle tecnologie più moderne e costose per chiudere il giacimento non esaurito, con tutte le garanzie per l’ambiente?
Il problema ambientale esiste, ma quando qualsiasi attività antropica interviene su un territorio o in ambiente marino l’impatto zero è un’utopia, quindi il problema non è limitabile unicamente alle trivelle ma allo sfruttamento complessivo del territorio. A titolo esemplificativo: abbiamo rinunciato al nucleare come fonte energetica, ma siamo circondati da paesi con centrali nucleari a due passi da noi (ad esempio in Francia a Cruas e Tricastin o in Slovenia a Krško), per non trattare dell’incidente di Černobyl’; i pozzi d’acqua per uso privato per legge si possono realizzare liberamente, ma possono essere altamente inquinanti e rischiosi se costruiti senza le dovute tecniche e… quanto inquinano la falda le porcilaie del nord Italia? Tutte domande che necessitano di risposte che prevedano analisi scientifiche accurate, un’informazione dettagliata e neutrale nei confronti della società civile, seguite da un indirizzo politico in grado di mediare tra le differenti posizioni. In questo modo si costruisce un percorso democratico reale proprio delle democrazie mature.
In questo caso si può, dunque, sostenere che l’attuale referendum, banalizzando come sempre capita in problemi così articolati, questioni ambientali che andrebbero trattate con la giusta attenzione e nelle corrette sedi politiche, fallisca nel suo statuto di strumento democratico. Il mondo ed il paese in cui viviamo e la civiltà che abbiamo costruito avranno ancora bisogno per molto tempo dell’energia e dei derivati che provengono da olio e gas naturali nell’attesa che il progresso tecnologico ed una visione più etica complessiva garantiscano la transizione verso fonti energetiche alternative.