Il mio esodo

di Mario Ravalico

 

All’inizio del maggio 1954 finalmente arrivò l’autorizzazione a partire da Pirano verso Trieste, non era ancora Italia, ma Zona A del Territorio Libero di Trieste: una grande emozione e, insieme, una grande paura per l’ignoto. Non avevo terminato l’anno scolastico: non riuscii a ricevere la pagella della terza ottennale (corrispondente alla terza media) perché fu stabilito dalle autorità jugoslave che la nostra partenza doveva avvenire in quel mese, mentre la scuola sarebbe terminata a fine giugno. Si doveva fare così, non c’erano via di scampo o possibili mediazioni, se si voleva mantenere la propria identità e la cittadinanza italiana. Mio padre trovò il camion che avrebbe caricato le nostre poche e povere cose; aveva anche un rimorchio sul quale un’altra famiglia mise le proprie masserizie. Fu definito il giorno della partenza: era il 25 maggio, una data che per tutta la vita non potrò più dimenticare! Avevo solo tredici anni e quattro mesi e la mia vita stava per cambiare, definitivamente.

Ho ancora nella mente le sensazioni, preoccupazioni, incertezze, anche le paure di quei giorni, che mi accompagnarono poi per molto tempo: improvvisamente finiva la mia preadolescenza e maturava anzitempo una nuova stagione di vita. Per molte notti, fino al giorno della partenza, non dormii tranquillo; molti sogni, ma forse in parte erano realtà, mi passavano per la mente: che cosa avrei fatto una volta giunto a Trieste? Come sarebbe stata la mia nuova vita? Avrei ritrovato gli amici con i quali avevo condiviso giochi, momenti di studio, spensieratezze, anche impegni di noi ragazzi maturati attorno alla nostra chiesa? Ci sarebbero stati ancora? Pensavo a Giorgio, ad Arrigo, a Guido, a Guerrino… Ma dove erano quelli partiti da Pirano prima di me? Pensavo anche alle ragazze che avevano fatto con me le tre classi ottennali con le quali era sorta una bella amicizia, forse anche qualche simpatia, Anita, Margherita, Maria Rosa… In quale città si trovavano ora? Ci saremmo più rivisti?

Domande che non potevano avere risposte e mi lasciavano un’angoscia profonda. Mi stavo rendendo conto che la mia vita sarebbe proprio cambiata perché, una volta strappate così violentemente le mie radici, sarebbe stato molto faticoso ricostruire una storia nuova. Poi invece, molti anni più tardi, soprattutto dopo l’incontro con Giuliana, mia moglie, una nuova storia si è ricostruita. Ed è stata una storia di gioia e di impegno, nella famiglia, nel lavoro, nella Chiesa, nella società.

Quella mattina, di buon’ora, ci alzammo tutti e cinque – Alma, i nostri genitori, nonna Rosa ed io – ma mio padre e mia madre, in realtà, erano da molto tempo già in piedi, con tante cose da fare per la partenza. Arrivò il camion e si cominciò a caricare le nostre cose: a farlo c’era papà con qualche altro uomo che lo aiutava, mentre la mamma indicava come sistemarle. Io guardavo, triste, ma un po’ aiutai anch’io. Da subito era arrivato il doganiere che aveva il compito di controllare con cura tutto ciò che si stava caricando sul camion; non era un controllo formale, me ne resi conto subito. Aprendo uno dei cassoni, quello nel quale la mamma aveva sistemato gli album delle foto di famiglia e i libri di teologia e i quaderni di un sacerdote fuggito da Umago, e verificando ogni cosa con cura, la guardia doganale sfogliò uno degli album estraendone due foto. Erano state scattate a Pirano durante il Ventennio: in una c’era la processione di San Giorgio, con gli avieri di Portorose in divisa militare che scortavano le reliquie del Santo; nell’altra si vedeva il podestà di Pirano (uno zio di mia madre, imprigionato e poi infoibato) in divisa fascista. Per noi erano solo foto ricordo di quel tempo, senza alcuna valenza politica o di nostalgia per quel regime; per loro invece erano foto pericolose: potevano rappresentare – chissà – l’apologia del fascismo. Per questo quelle foto furono immediatamente sequestrate e furono sequestrati anche due dei libri di teologia, ma non so perché. Forse perché, sulla pagina interna, c’era il nome di quel sacerdote che il regime, per un lungo tempo, aveva perseguitato. Oggi sembrano banalità o particolari insignificanti, ma allora ogni atto, ogni azione aveva il suo valore e un suo preciso significato.

Dopo questi inconvenienti, il controllo proseguì con speditezza e, quando Dio volle, il camion andò ad agganciare il rimorchio in altra contrada e partì da Pirano. Sul mezzo, assieme all’autista, sedevano mio padre e il capo dell’altra famiglia. Tutti noi invece salimmo su un’auto de piaza e partimmo per il confine tra la Zona B e la Zona A. Erano circa le dodici.

Ma, prima di andare definitivamente via da quella che era ancora la nostra casa, fu chiuso il portone ma non come quando ci si trasferisce da una casa a un’altra e si sa dove si sta andando, magari con l’intento di ritornare a prendere un’ultima cosa che si era dimenticata: una volta usciti tutti e portato via tutto quello che era stato deciso, vidi mia madre chiudere dietro a sé il portone che dava sulla strada con la chiave, che non portò via – non sarebbe potuta servire mai – ma che lasciò nella toppa, per chi non lo so. In quel momento mi prese un groppo alla gola e piansi: capii che era finita davvero. Durante il tragitto che ci portava a Trieste, anzi, ad Albaro Vescovà, il paese alle spalle di Trieste che apparteneva ancora alla Zona A e che segnava il confine con la Zona B, tutti noi rimanemmo muti, ognuno con i propri pensieri e le proprie domande. Si arrivò finalmente ad Albaro Vescovà (Škofije, come si chiama in sloveno il paese), là dove – ancora oggi sono ben visibili – si trovavano le due casette, ciascuna da un lato della strada, che segnavano il confine tra le due Zone (e tra due mondi), che fungevano da posto di controllo per la dogana e per la polizia. Seduti ai bordi della strada, sotto un sole che picchiava forte, la nonna piangeva e mia sorella cercava come poteva di confortarla: si aspettava che giungesse il camion con le nostre masserizie e con mio padre. Arrivò e, dopo i controlli della polizia anglo-americana e l’interrogatorio di rito che fecero a mio padre, come a tutti i nuovi arrivati (avevano bisogno di sapere molte cose su quanto stava avvenendo dall’altra parte del confine), finalmente ci fu assegnato il luogo dove saremmo andati, mentre le masserizie sarebbero state portate in un magazzino (più tardi si seppe che questo si trovava al Porto Vecchio).

Era sera quando arrivammo a Trieste, in centro, e fummo alloggiati provvisoriamente tutti e cinque in uno degli alberghi requisiti per l’accoglienza temporanea dei profughi giunti in città, prima di dar loro altre sistemazioni più definitive; era l’albergo «Vanoli», in piazza Unità, allora ormai decadente e praticamente in disuso, ma fino a poco tempo prima – lo seppi poi – utilizzato come luogo di appuntamenti, soprattutto di militari. Solo molti anni più tardi, una volta completamente ristrutturato, diventerà l’albergo di lusso «Ai Duchi».

Noi eravamo sistemati tutti in una stanza al terzo piano, con una vista incredibile sulla piazza e sul mare antistante, ma quello che mi colpì fu la sporcizia dei materassi e un generale degrado di tutte le suppellettili. Qui rimanemmo circa tre mesi; a pranzo e a cena si andava in via Gambini (dove più tardi troveranno posto un Centro di Salute Mentale e il Centro Donna) alla mensa comunale, dove diverse centinaia di persone, diligentemente e ordinatamente in fila in strada, aspettavano il proprio turno per mangiare o, talvolta, per portarsi via il cibo con la gamela.

Quante volte ho ripensato alle lunghe, pazienti e umilianti attese di noi tutti per poter consumare il pasto… Molti anni dopo, trovandomi in gita ad Abbazia con mia moglie e con un mio figlio – credo fosse il 1993, in piena guerra nella ex Jugoslavia – alla sera vidi uscire da un albergo una lunghissima fila di persone con in mano un pentolino, soprattutto donne, vecchi e bambini, che si recavano in un altro edificio dove veniva distribuito il pasto serale. Ho provato compassione per quella gente, perché in essa mi sono rivisto con la mia storia, le mie vicende e le mie sofferenze, diverse nel tempo ma uguali nella sostanza e nella ripetitività di quei gesti e di quel dolore, conseguenza di guerre e di ingiustizie.

(foto di Luca Tedeschi)

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