Parole o stili: solo bon ton?

di Giovanni Grandi

 

Si aprono oggi a Trieste i lavori di Parole O_stili, un’iniziativa di sensibilizzazione sulla violenza e sull’ostilità che nascono sui social media, inquinando le relazioni, allontanando le persone e trasmettendo la percezione crescente di un mondo lacerato da profondi contrasti.

Naturalmente le divisioni e gli atteggiamenti di reciproca ostilità appartengono anche al mondo offline, quello che chiamiamo “reale”, ma forse oggi è importante rendersi conto che esiste una quota di aggressività che si origina e amplifica proprio in rete, a riprova del fatto che quel che accade online non è “virtuale”, nel senso di “finto” o “inesistente”. Le interazioni, ovunque avvengano, possono riflettere cura o superficialità, accoglienza o avversità per l’altro. C’è, insomma, stile e stile, ma l’aspetto interessante della dimensione online non è tanto il fatto che anche qui si trovino gli attaccabrighe o i maleducati, quanto il fatto che anche a chi è animato dalle migliori intenzioni comunicative accade di trovarsi coinvolto discussioni accese e tese, a cui dal vivo non concederebbe spazio. Specialmente sui social media il passo dalla parola poco indovinata alla parola pesante è spesso così breve che le cose sfuggono di mano con grande facilità.

La velocità degli scambi, la povertà e talvolta l’ambiguità intrinseca delle parole, l’assenza di altri canali espressivi incidono talvolta sul modo in cui un’opinione o un commento risuonano nell’universo dell’altro. Che può sentirsi svilito, offeso o denigrato anche se questo non era nelle intenzioni di chi ha scritto un breve post o un commento.

Esiste, naturalmente, una lettura superficiale dello spirito dell’iniziativa, che consiste nel ridurre tutto a una questione di buone maniere. C’è questo rischio, specialmente se in fatto di comunicazione siamo abituati a pensare ai contenuti e allo stile come al regalo e alla confezione: si sta forse dicendo che occorre “infiocchettare” meglio quel che si dice? Magari col rischio di annacquare tutto nel politically correct e di sacrificare la sostanza alla forma, o – peggio – la verità alla cortesia?

Quel che l’iniziativa vuole invece far notare è che lo stile non è affatto una questione di estetica dell’espressione, ma molto più profondamente il riflesso della nostra capacità di accostarci all’universo dell’altro, comprendendo come le stesse parole possano risuonare in lui (e/o lei).

L’eco delle parole, specialmente di quelle più cariche di contenuto, è data certamente dal loro significato linguistico ma anche e non secondariamente dal vissuto personale e culturale di chi le ascolta. Come spiega bene Francesco Santioli – ospite del panel «In nome di Dio» – «checkpoint» si traduce correttamente anche con «frontiera». Eppure un giovane israeliano e un giovane palestinese (come quelli che si incontrano a Rondine), per confrontarsi sulla loro diversità e intendersi, discutono più facilmente servendosi del termine italiano che non di quello inglese.

Questione di “fiocco e confezione”? No.

L’esperienza di queste persone insegna che certe espressioni e talvolta anche certe precise parole producono nell’ascoltatore uno stridore che mina da buon principio il terreno (possibile) di incontro. Questo accade non perché le parole siano in sé offensive, ma perché sono i vissuti ad averle sovraccaricate. Per riscattare certe espressioni da questo genere di peso improprio non servono lezioni di filologia ma percorsi articolati, attraverso cui le persone riescano a raccontarsi, a esprimere il proprio dolore, le proprie aspettative, i desideri di bene che le animano. Le parole iniziali o preliminari di questi percorsi devono allora essere soppesate con grande cura prima di essere spese nel confronto, in modo da non ostacolare l’accoglienza reciproca ma da sostenerla.

Se riconosciamo, come ha ben mostrato Piermarco Aroldi sulla rivista «Dialoghi», che l’interazione in rete può rappresentare soprattutto il luogo della conversazione preliminare rispetto a discussioni più dense e articolate – che possono e devono avvenire altrove, dal vivo –, allora possiamo comprendere anche la portata dell’iniziativa «Parole O_stili» nel suo reale spessore.

È probabile che il problema della risonanza delle espressioni sia molto rilevante specialmente per i comunicatori delle verità di fede, specialmente in Europa, perché se il cristianesimo ha realmente segnato la cultura con una serie di parole-chiave (verità, bene, precetti, dottrina, amore, perdono, obbedienza…) occorre capire anche come queste stesse parole abbiano segnato le vite concrete. Dietro allo stesso termine potrebbero esserci esperienze di liberazione e di rinascita così come di oppressione e mortificazione. E non è certo la stessa cosa.

Il punto allora non sono le buone maniere, ma la cura che ci mettiamo nell’intercettare le risonanze nei nostri interlocutori: questa cura è la misura reale del nostro rispetto tanto per le persone, quanto per le idee e i contenuti che riteniamo sia importante proporre e far conoscere. La “verità delle cose” ha indubbiamente bisogno di parole per essere indicata, ma i percorsi per guadagnarla nel confronto interpersonale e per poter spendere utilmente le precise parole che riconducono a precise idee o precisi fatti sono necessariamente lenti.

Va da sé che la velocità comunicativa a cui invitano i social media (ma anche le mail, le chat, gli SMS), la povertà lessicale, la mancanza di altri indicatori espressivi che non siano gli emoticon, non agevolano né l’ascolto né la scelta delle parole più adatte per avviare o sostenere una conversazione senza rischi di malintesa ostilità. Occorre rallentare, educarsi e farsi più sensibili.

Su questa difficoltà si interroga l’iniziativa paroleostili.com, certamente guardando con preoccupazione anche alla maleducazione e all’aggressività intenzionale che si liberano in rete e che trovano nell’anonimato o semplicemente nella distanza fisica facili alleati di animi violenti.

Forse tutto questo è poco, ma è già qualcosa.

In un tempo in cui fioccano i “benaltrismi”, raccogliersi a riflettere sulla grande questione dei nostri modi di farci attenti agli altri non è tempo sprecato.