A proposito di integrità…

di Giovanni Grandi

 

«Integrale» è il pane, ma anche la trazione di una macchina a quattro ruote motrici oppure l’«umanesimo» di cui parlava Maritain già nel 1934; alle volte occorre «integrare» una documentazione, altre i sali che abbiamo perso dopo un esercizio fisico; «integra» è una persona di provata onestà così come la confezione di un prodotto ancora intatta…

Cosa evoca in noi l’idea di «integrità» o la qualifica di «integrale»?

L’accezione con cui questi termini risuonano in ciascuno accompagna la lettura dell’enciclica Laudato si’ e vale la pena di apprezzarne qualche sfumatura, utile per riflettere su quel che può significare una «visione integrale della vita».

Nel pensiero teologico classico «integrità» è anzitutto sinonimo di «perfezione», cioè di «completezza» ed è, almeno secondo Tommaso d’Aquino, il primo e fondamentale requisito per la «bellezza, […] poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi» (Summa Theologiae, I, q. 38 a. 8).

All’«integrità» si contrappone la «mancanza» di qualcosa che dovrebbe esserci.

È interessante osservare che noi siamo in grado di percepire un’assenza che genera disarmonia solo perché più radicalmente portiamo in noi l’attesa di una presenza che completa.

Questa capacità di avvertire la mancanza attendendo la presenza è importante anche in prospettiva morale, e anche qui Tommaso ha sintetizzato qualcosa che appartiene all’esperienza di tutti: «Perché un’azione sia cattiva basta un solo difetto (defectus, mancanza), mentre perché sia buona in senso assoluto non basta un particolare aspetto di bene, ma si richiede l’integrità della bontà (integritas bonitatis)» (Summa Theologiae, I-II, q. 20 art. 2). L’idea di fondo è che qualunque cosa, ed in primis la vita umana, per essere effettivamente bella (e buona) non può che esserlo in tutte le sue dimensioni costitutive: quando anche un solo aspetto è compromesso, tutto ne risente e noi infatti lo rileviamo immancabilmente.

Ogni forma di sofferenza e di male nasce da una mancanza, da una mancanza però di qualcosa che abbiamo conosciuto, di cui abbiamo una qualche esperienza e memoria, di cui possiamo perciò ritrovare traccia. Possiamo dire più precisamente che il dolore è connesso alla «perdita» di qualcosa, come aveva intuito bene Severino Boezio: «In ogni avversità il genere più infelice di sfortuna consiste nell’essere stati felici». (La consolazione della filosofia, III, 4,1-2).

In effetti per i latini intĕgro, -āre non significa anzitutto completare, ma più precisamente riportare ad una condizione precedente, rinnovare, ricominciare. Dunque dove la vita richiama l’attenzione con i sintomi della tristezza o più ancora della sofferenza si tratta di ricominciare, e per non muoversi alla cieca occorre anzitutto cercare di comprendere quale sia la perdita per cui la vita soffre, quale la mancanza essenziale che rende tutto incompleto e dolente.

Nel proporci una riflessione su una ecologia integrale Papa Francesco ha richiamato a questo grande paradigma, che vale tanto per la storia di ciascuno quanto per il nostro pianeta: quando perdiamo qualcosa, quando di un «pezzo» – di noi stessi, di relazioni, di mondo, di società… – non ci prendiamo più cura, magari perché complicato, impegnativo o ferito, la vita non migliora affatto, ma pian piano tutto si guasta.

Che cosa manca alle nostre vite e nella nostra società? L’enciclica ci accompagna dinanzi a tante assenze e, in fondo, dinanzi alla loro matrice: ovunque l’integrità risulti compromessa scopriamo che manca la capacità di vivere al servizio, si vive facendosi servire e cercando perciò di sfruttare le cose, l’ambiente e gli altri a proprio esclusivo beneficio. Come realizzare però la conversione che appare così necessaria? È importante ricordare quel che già i primi cristiani avevano compreso: quella di vivere al servizio non è una capacità che siamo in grado di darci da noi stessi, dunque l’integrità del modo di vivere non dipende da uno sforzo volontaristico, ma dal dono della guarigione interiore. Come narra esemplarmente il Vangelo di Marco nei suoi esordi, tutti siamo come la suocera di Pietro, bloccati dalle nostre infermità, in una condizione di salute compromessa che ci impedisce di disporci nella prospettiva del servizio. Da questa condizione si esce non per auto-guarigione, ma accogliendo in casa quel che manca: la presenza risanatrice dello Spirito del Signore, che – come scrive l’evangelista – «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva». (Mc 1,31).

Nella prospettiva cristiana, una visione integrale della vita è quella che fa continuamente memoria del «pieno», della «completezza» che viene dalla presenza interiore dello Spirito e che legge i segni dell’integrità perduta come un invito a ritornare alle sorgenti, perché il proprio darsi da fare – sociale, economico, ambientale – non si riduca ad attivismo velleitario.

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