Abitare il sociale senza il “partito dei cattolici”

di Giovanni Grandi

Non ci è voluto molto tempo perché il dopo-Family Day approdasse – ancora una volta – alla nascita di un partito politico, nel tentativo di tradurre in consenso elettorale i numeri della piazza. Questa volta il primo a muoversi è stato Mario Adinolfi (insieme a Gianfranco Amato), con una proposta (vedi) non a caso rivolta in primis ai cattolici, orfani (presunti) ora di rappresentanti all’altezza, ora di un’organizzazione partitica in grado di condurre efficacemente alcune battaglie a livello legislativo. L’interrogativo è se davvero sia questo il tipo di soluzioni a cui guardare, lì dove si cercano i modi per meglio contribuire da cristiani alla promozione del bene comune. Ha senso un nuovo partito “dei cattolici”? Oppure occorre prendere in considerazione altre vie per abitare il sociale?

La traiettoria tracciata da Adinolfi è, anzitutto, un déjà vu: già dopo il primo Family Day del 2007 partì un progetto politico, capitanato allora da Savino Pezzotta (figura di ben diversa levatura), che confluì alle consultazioni politiche del 2008 nell’Unione di Centro. Il risultato elettorale consentì di superare, seppur di poco, lo sbarramento del 4%. Solo il 5,7% dei votanti aveva sostenuto il rilancio di un contenitore politico ben connotato in senso identitario e – in ogni caso – decisamente più attrezzato culturalmente: Pezzotta proveniva dalla robusta tradizione della CISL e da una frequentazione globale dell’insegnamento sociale della Chiesa, alimentata dall’ispirazione di figure di movimento come Emmanuel Mounier.

È probabile che già allora – e pure tenendo conto del ben diverso profilo del portavoce del Family  Day del 2007 – le chances di riuscita di un tentativo di rilancio di una presenza non disseminata dei cattolici nelle istituzioni, fossero minime. La nobiltà del tentativo, che nel 2008 provava anche a scardinare la logica del bipolarismo, non trovò significativo riscontro popolare.

Difficile supporre che le cose siano oggi cambiate in senso più favorevole a disegni di questo tipo; le condizioni storico-culturali sembrano semmai dire il contrario e l’ipotesi di dare nuove gambe al pensiero sociale della tradizione cristiana ricreando un “partito-dei-cattolici-votato-dai-cattolici” appaiono decisamente accademiche. C’è anche da chiedersi se questa ipotesi non sia da superare anche al di là della contingenza storica: di questo avviso è, ad esempio, papa Francesco: «Un partito solo dei cattolici – ha osservato in una recente riflessione – non serve e non avrà capacità convocatorie»; serve piuttosto una disponibilità personale dei cristiani a «immischiarsi» nelle vicende della polis, anche con la capacità di sostenere i limiti del proprio fare, di riconoscerli e di ricominciare.

Rimane, però, la questione: che ne è della capacità di incarnazione del pensiero sociale cattolico oggi? Come può la comunità dei cristiani incidere concretamente e in favore di tutti, nella continua rielaborazione dei modi di vita del Paese? L’impressione che si debba in qualche modo ripartire è comunque diffusa.

Un segnale interessante è venuto recentemente dal Convegno annuale dell’Ufficio Nazionale della CEI per i problemi sociali e il lavoro (Abano, 2-5 febbraio 2016): si è lavorato per alcuni giorni proprio sulle Vie nuove per abitare il sociale, raccogliendo buone pratiche e sperimentando modalità inclusive di riflessione e di partecipazione. In particolare è emersa l’importanza di farsi maggiormente carico delle situazioni conflittuali che feriscono un territorio. Significativa in questo senso è parsa l’esperienza del Vicariato di Monselice, in cui è stata l’iniziativa partita da una comunità parrocchiale a individuare una soluzione al conflitto tra diritto alla salute e diritto al lavoro, sorto attorno all’ipotesi di rilancio delle attività di un cementificio. Il percorso fatto, presentato in un video che vale la pena di guardare, mostra quel che può nascere in favore di tutta la comunità civile da una attenzione concreta e incarnata all’insegnamento sociale della Chiesa.

La parrocchia è stata il contesto in cui è stato possibile portare a un tavolo di discussione e di reciproca legittimazione attori civili e istituzionali che si stavano arroccando su posizioni di reciproco rifiuto. Incontrando questa vicenda, come non pensare – ad esempio – al problema della Ferriera di Trieste?

È, naturalmente, solo uno spunto. Altri se ne possono trovare a disposizione tra i materiali circolati al convegno, dai cui lavori è senz’altro emersa la necessità di ripartire non tanto da nuovi contenitori partitici quanto piuttosto da una maggiore capacità diffusa di interlocuzione con il territorio.

La via per ritrovare ascolto nella polis, anche su grandi questioni etiche all’attenzione del legislatore nazionale, passa molto più probabilmente per la ricostruzione di una forte credibilità comunitaria, da riguadagnare sul campo, spendendosi per la vita buona di tutti.

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