Convegno Bachelet 2019

 

di Andrea Dessardo

 

Già trentanove anni sono trascorsi da quel 12 febbraio 1980 in cui le Brigate rosse posero brutalmente fine alla vita terrena di Vittorio Bachelet: l’Azione cattolica non ha smesso di coltivarne la memoria, tra l’altro organizzando ogni anno un convegno per ragionare sui bisogni del presente. Fare memoria infatti, come ha ricordato l’assistente generale mons. Gualtiero Sigismondi nella messa di suffragio, «significa non solo riportare alla mente la sua figura e il suo insegnamento, ma anche dargli di nuovo il cuore, come suggerisce l’etimologia del verbo ricordare: verbo di futuro, non di passato!».
E proprio di futuro, infatti, ha trattato il XXXIX Convegno Bachelet celebrato l’8 e il 9 febbraio alla Domus Pacis: «Il futuro delle democrazie». Un tema, come ha detto il presidente dell’Istituto “Vittorio Bachelet” Gian Candido De Martin, non nuovo, ma che oggi, per la situazione politica, riprende d’attualità. Nella prima sessione ne hanno discusso, con approcci politologico, storico e filosofico, introdotti dal presidente dell’Azione cattolica Matteo Truffelli, Damiano Palano (Università Cattolica), Paolo Pombeni (Università di Bologna) e Giuseppe Acocella (Università di Napoli “Federico II”).
Il tema della crisi della democrazia, si sa, è ricorrente, ma negli ultimi quindici anni – ha spiegato Palano – ha assunto caratteri nuovi, come effetto dell’esaurimento della cosiddetta “terza ondata” di democratizzazione iniziata negli anni Sessanta con la decolonizzazione e giunta al suo culmine con la caduta del Muro di Berlino: le democrazie africane sono però in gran parte fallite e drammaticamente fallite sembrano pure le recenti “rivoluzioni colorate” e le “primavere arabe”. Quanto all’Occidente, si parla di “deconsolidamento” del regime democratico, cioè del venir meno della legittimazione riconosciuta dai cittadini al sistema politico, dato dal loro progressivo allontanamento da quelle prassi (il voto, ma non solo) che fanno sì che una democrazia sia davvero tale. Addirittura un millennial su quattro, secondo recenti indagini, afferma che preferirebbe un diverso sistema di governo. Il quadro politico – lo vediamo – si polarizza sulle estreme svuotando il centro, ma al contempo si indeboliscono anche i legami d’appartenenza e d’identificazione, poiché il “popolo” da rappresentare pare assai meno omogeneo di una volta. Su questo punto è tornato più convincentemente Paolo Pombeni: la rappresentazione retorica tipica del costituzionalismo ottocentesco, che pretendeva che il parlamento rappresentasse il “popolo”, è venuta meno. Non c’è un popolo che, come lo intendeva Max Weber, si senta “comunità di destino”, ma in vece sua vi sono “tribù” frammentate che rappresentano interessi particolari talora tra loro in conflitto: non c’è perciò vera “convivenza”, si “vive accanto” gli uni agli altri. Non sapendo perciò chi rappresentare, la democrazia diventa tautologica, finendo per rappresentare nient’altro che se stessa e le sue élite: «È la democrazia come formalismo, come giuridicismo esasperato fatto di norme che interpretano altre norme in una catena infinita dietro cui si è perso il contatto con la realtà». Il populismo è una rozza reazione a questa crisi: il “popolo” si sente tradito da questa “democrazia della diseguaglianza” e una parte di esso – ovviamente autoproclamatasi la migliore, la più autentica – si propone quale catalizzatore di una ritrovata unione, ma in forme più o meno consciamente totalitarie. Sul concetto di “democrazia della diseguaglianza” ha riflettuto anche Giuseppe Acocella, osservando come, pur in un contesto di complessivo miglioramento delle condizioni di vita, le diseguaglianze nel mondo siano aumentate: e quanto può durare una democrazia siffatta?
La tavola rotonda dell’indomani, cui hanno preso parte, moderati da Danilo Paolini di «Avvenire», Filippo Pizzolato (Università di Padova), la politologa Chiara Tintori, Fausto Colombo (Università Cattolica), Lorenzo Caselli (Università di Genova) e la presidente della Fuci Gabriella Serra, si è interrogata su cause e possibili soluzioni a questa crisi. Bisogna ripartire dalla gente, dai vecchi “corpi intermedi”, dalle parrocchie, dalle Università, ridando voce, sostanza e rappresentanza a quel popolo frammentato e deluso, oggi rassegnato ad affidarsi al cinismo di qualche demagogo.
«Con l’eredità di sapienza ricevuta da Vittorio Bachelet, i soci di Azione cattolica italiana possiedono come una fiaccola che, oltre a risplendere, illumina», ha detto ancora mons. Sigismondi nella sua omelia. E sono parole che possono restituirci coraggio e sano orgoglio.