Il batterio che mangia la plastica

di Davide Martini

 

 

A parole tutti (o, almeno, la stragrande maggioranza delle persone) sostengono di essere favorevoli alla difesa dell’ambiente; da un po’ di tempo anche la Chiesa ha sviluppato una maggiore sensibilità ecologista (basti pensare all’ultima enciclica Laudato si’ di papa Francesco), colpevolmente trascurata anche a causa di una lettura troppo “fondamentalistica” della Sacra Scrittura (racconto della creazione del mondo nella Genesi, per intenderci).

Contro questa nuova diffusa sensibilità, esiste però una realtà meno positiva. E cioè il fatto che gli uomini e le donne del pianeta nella sua parte più industrializzata continuano a consumare troppe risorse incuranti della “cura” della casa comune (per citare proprio l’enciclica di Bergoglio) inquinandola senza un’adeguata consapevolezza ecologista.

L’esempio più eclatante riguarda la plastica. Perché è uno dei materiali più utilizzati nelle nostre società, e perché ci vuole tantissimo tempo per far sparire questo rifiuto dall’ambiente. Dovete pensare, infatti, che se ne producono 311 milioni di tonnellate ogni anno, di cui tra 4,9 e 12,7 milioni finiscono nei mari e negli oceani. Poi, se per distruggere una sigaretta bastano “solo” cinque anni, per il nylon ce ne vogliono una quarantina e per una lattina circa duecento, per una bottiglia di plastica si ipotizza che occorrano almeno 450 anni affinché tale materiale sparisca dalla faccia della Terra. Stiamo parlando soprattutto del PET, polietilene tereflalato, una delle plastiche più diffuse al mondo utilizzata soprattutto per scopi alimentari (bottigliette per l’acqua, involucri per alimenti, ecc.). Se ne producono 50 milioni di tonnellate all’anno circa, e dal punto di vista chimico è una plastica molto resistente al processo di biodegradazione, cioè di distruzione da parte di agenti biologici. Finora si riteneva che solo due funghi, tra gli organismi conosciuti, fossero in grado di decomporre parzialmente il PET. Almeno fino ad oggi. Ma una buona notizia sembra smentire questa triste realtà.

Uno studio pubblicato su “Science” annuncia infatti che alcuni ricercatori hanno identificato un batterio in grado di degradare ed assimilare il PET. Un batterio mangia-plastica grazie solo a due enzimi. Questo batterio, chiamato in termine tecnico Ideonella sakaiensis 201-F6 alla temperatura di 30°C e dopo sei settimane riesce a degradare quasi completamente un piccolo e sottile film di PET. Come? A rendere possibile il processo, spiegano i ricercatori, sono due enzimi che intervengono in successione, se confrontati con gli analoghi di altri batteri. Queste due sostanze sono in grado di convertire da sole il PET nei suoi monomeri: l’acido tereftalico e il glicole etilenico. Monomeri che verrebbero poi utilizzati per la crescita del batterio. La scoperta potrebbe rappresentare una via possibile per rimuovere questi rifiuti dall’ambiente. Il batterio è stato scovato analizzando oltre 250 campioni da un sito di riciclaggio di bottiglie in PET, e anche se il processo è abbastanza lento, esso potrebbe rivelarsi utile non solo per la degradazione della plastica e/o il suo eventuale riutilizzo nell’ambiente, ma anche come studio dei principi dell’evoluzione degli enzimi, come spiega Uwe T. Bornscheuer sull’editoriale che accompagna l’articolo scientifico. Se riutilizzata, questa plastica eviterebbe l’uso di nuovo petrolio per produrla; se cancellata completamente, invece, aiuterebbe l’ecosistema del mondo sottomarino: la plastica, infatti spezzettata dagli agenti atmosferici in particelle micrometriche – la cosiddetta microplastica – viene facilmente ingerita dal plancton che è alla base della catena alimentare marina e perciò fondamentale per l’ecologia dei suoi ambienti. Un grazie convinto, quindi, al Kyoto Institute of Technology, guidati da Shosuke Yoshida responsabili di questa importante scoperta.

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