Pronti per il nuovo Messale?

Intervista a don Loris Della Pietra

a cura di Michela Brundu

Don Loris Della Pietra (1976) è presbitero dell’Arcidiocesi di Udine. Dal 2007 è direttore dell’Ufficio Liturgico Diocesano.

Nel 2008 ha conseguito la Licenza in Teologia con specializzazione in liturgia pastorale presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Santa Giustina in Padova (affiliato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo in Roma) e nel 2011 ha ottenuto il Dottorato nel medesimo Istituto. È docente di Liturgia presso la Facoltà Teologica del Triveneto nella sezione di Udine, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Udine e l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova. Collabora con alcune riviste dove affronta tematiche di teologia liturgica. E’ autore di varie pubblicazioni. Attualmente è Rettore del seminario inter-diocesano di Castellerio. 

Ci sarà a breve la nuova edizione del Messale che inizia a essere utilizzato nella prima domenica d’Avvento di quest’anno. La prima domanda è ovvia: perché bisognava cambiare? 

La prima ragione è pratica: nel 2000 esce una terza edizione tipica in lingua latina del Messale romano, un’edizione che doveva recepire alcuni aspetti della normativa liturgica che si trovavano in altri libri liturgici ma anche nel Codice di Diritto Canonico uscito nell’83. Tra il 1975 (seconda edizione tipica) e il 2000, alcuni di questi documenti presentavano elementi che bisognava recepire nel Messale. Un’altra ragione è dovuta ai Santi inseriti nel Calendario Romano Generale. Inoltre c’era anche il desiderio di accogliere elementi che erano stati accantonati con la riforma liturgica ma che sembravano degni di una certa valorizzazione. Ad esempio le orazioni sul popolo nel Tempo di Quaresima, un’antica prassi con la quale la liturgia romana congedava il popolo con una preghiera di invocazione e di benedizione. Infine l’accoglienza di alcuni elementi testuali ulteriori per arricchire la preghiera della Chiesa. Penso ad un ulteriore prefazio per i martiri. Quindi dato che nel 2000 si era arrivati a una terza edizione latina del Messale Romano, le Chiese locali si sono subito messe al lavoro per l’opera faticosa della traduzione. 

E ci sono voluti vent’anni? 

Sì, quasi vent’anni in Italia. Viene da chiedersi per quale motivo. Innanzitutto il lavoro di traduzione è sempre un lavoro delicato e impegnativo. Ma nel frattempo ci sono stati due documenti che hanno guidato il lavoro di traduzione dei libri liturgici.  

Il primo si chiama Liturgiam autenticam, del 2001, il quale chiede una traduzione letterale. Dal punto di vista linguistico ciò è impossibile: non si può tradurre letteralmente! Fedelmente sì, ma non letteralmente, pena l’irrilevanza e la scarsa qualità del testo di arrivo, del testo che i parlanti dovrebbero sentire come proprio. Questo documento ha creato notevoli perplessità, molti problemi e anche una certa resistenza da parte delle Chiese locali nei confronti della Dicastero della Santa Sede che si occupa della liturgia. Nel 2017 Papa Francesco con un Motu proprio, un documento di sua iniziativa, che si intitola Magnum principium decide innanzitutto di restituire alle Chiese locali e alle conferenze episcopali locali la facoltà non soltanto di tradurre ma anche di approvare le traduzioni. Papa Francesco lo fa semplicemente riportando la situazione a quanto già prevedeva Sacrosantum Concilium (la Costituzione del Concilio Vaticano II sulla liturgia). 

Il secondo elemento che troviamo in Magnum principium è l’esortazione a tradurre i testi in modo che siano fedeli, da una parte, al testo di partenza ma che siano anche fedeli al contesto e alla lingua d’arrivo. Direbbe San Girolamo – che usava spesso un linguaggio un po’ piccante – affinché non siano dei mostriciattoli letterari, una fotocopia rigida e dura del testo di partenza, ma dei testi che stiano bene sulla bocca dei parlanti e dunque degli oranti, dei celebranti. 

La sintesi tra queste due “fedeltà” ha determinato la lunghezza del lavoro. D’altra parte, il testo che abbiamo si presenta in una lingua “nobile”, adatta all’italiano medio, ma nello stesso tempo non troppo debitrice dei repentini cambiamenti della lingua. La lingua cambia ogni giorno: può darsi che tra qualche anno non avremo più i congiuntivi anche nella lingua scritta. Dunque un testo liturgico non può cedere troppo alle mode linguistiche ma deve presentare un testo snello e nello stesso tempo autorevole. 

Ora vediamo quali sono le variazioni. Abbiamo letto che cambia il Padre nostro, poi la famosa aggiunta “fratelli e sorelle”. Quali sono secondo te i cambiamenti principali e più rilevanti? 

Le variazioni sono parecchie sia nelle preghiere eucaristiche che nel rito della Messa che anche nei testi delle altre orazioni. 

Non è possibile esemplificare tutto in questa sede. 

Ripercorriamo allora il rito della Messa. Intanto il plurale nel saluto liturgico iniziale: “La grazia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo SIANO con tutti voi”. Tre soggetti e quindi il verbo ora è al plurale.  

L’atto penitenziale nella prima forma: il Confesso. Si usa ora un linguaggio inclusivo: “Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle, …”. 

Anche prima, sentendo dire “fratelli”, tutti pensavamo che si trattasse anche delle sorelle naturalmente. Però credo sia importante l’esplicitazione dell’elemento femminile nelle assemblee liturgiche. E’ vero che qui entra in campo la sensibilità contemporanea, molto attenta a questo aspetto. Anche Papa Francesco ci spinge in questa direzione. Del resto, è giusto anche richiamare il fatto che non soltanto la Chiesa – e dunque la comunità cristiana – ma soprattutto l’assemblea liturgica ha bisogno della donna e del genio femminile. Senza dimenticare che le nostre assemblee in molti casi sono perlopiù composte da donne. Allora dire “fratelli e sorelle” non è semplicemente accodarsi al sentire moderno e post moderno, ma significa riconoscere che la donna è parte, oltre che viva, anche significativa dell’assemblea. 

Faccio notare che questa preghiera è l’unica che si rivolge contemporaneamente a Dio e ai fratelli (e quindi anche alle sorelle) e dunque valorizza naturalmente la presenza di Dio e anche della comunità cristiana radunata nell’assemblea liturgica, composta di uomini e donne, giovani e meno giovani, piccoli e grandi. 

Poi c’è la questione un po’ strana della trasformazione di “Signore, pietà” in “Kyrie”. Perché? 

La questione del Kyrie. Si è pensato di non tradurre quanto di greco c’è nel Messale latino. 

Nelle invocazioni cristologiche, i cosiddetti tropi, il testo dell’invocazione era latino e la risposta in greco. Tale rimane nella traduzione italiana: ad esempio, dopo la frase “Signore mandato dal Padre a salvare i contriti di cuore” mentre fino alla precedente edizione seguiva “abbi pietà di noi”, ora diremo “Kyrie Eleison”.  

Vediamo la ragione. Innanzitutto “Kyrie Eleison” vuol dire molto di più (anche nei testi evangelici che contengono questa espressione) dell’italiano “abbi pietà di noi”. Vuol dire compassione, misericordia, vuol dire stare sotto lo sguardo buono e benedicente di Dio.

Poi questa espressione, in greco, ci fa sentire più vicini con i fratelli ambrosiani che utilizzano ancora il Kyrie Eleison e soprattutto ha una forte carica ecumenica perché ci mette in unità di preghiera con il grande “polmone” delle Chiese orientali di lingua greca che abitualmente si esprimono così.

Il Gloria e il Padre nostro: sono i cambiamenti più noti. Da dove vengono le ragioni degli aggiornamenti? 

Per il Gloria si tratta semplicemente di adeguarsi al testo evangelico di riferimento (Lc 2). 

Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace gli uomini “che Egli ama”, dice il Vangelo, o “amati dal Signore”, dirà il Messale. Quest’ultimo per una ragione di mantenimento delle melodie finora in uso e quindi di adattamento delle sillabe alla musica. 

Per il Padre Nostro la questione è stata lunga e dibattuta; e non è ancora soddisfacente per molti. Però l’idea che si voleva salvare è questa: Dio non ci induce, non ci spinge alla tentazione. Non è il soggetto della nostra tentazione. Piuttosto Dio interviene per aiutarci nel momento della prova e gli si chiede di non abbandonarci. 

E poi si è sentito di uno spostamento tra “Beati gli invitati alla cena del Signore” e “Ecco l’Agnello di Dio…” 

Sull’Agnus la questione è testuale ma anche più che testuale. É testuale perché riappare l’Agnello che nel testo latino c’è e nel testo italiano finora in uso era scomparso: “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. Poi abbiamo l’inversione delle frasi: secondo l’edizione tipica prima abbiamo ”ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29) – è la frase del Battista  – e poi “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello” (Ap 19,9) . Quindi prima l’ostensione dei doni e poi la beatitudine per chi vi si accosta. 

Ma è una questione più che testuale nel senso che qui c’è tutta la forza del suono, del battere e ribattere – anche sonoro – sul tema dell’Agnello. C’è una litania dell’Agnello durante la quale si spezza il pane: “Agnello di Dio…, Agnello di Dio…, Agnello di Dio”, a cui segue immediatamente “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” e, infine, “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”. 

La liturgia ha bisogno di testi e di contenuti, ma soprattutto ha bisogno di azioni. Il suono è un’azione: il testo che si fa suono diventa gesto. E questo si imprime molto di più che il semplice concetto. 

A proposito di testi, che prima non si sentivano che adesso diventeranno un po’ alla volta familiari, voglio citare la famosa questione della rugiada, nella Preghiera eucaristica II. Tra l’altro l’incipit, dopo il Santo, cambierà vistosamente. Finora era “Padre veramente Santo e fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito…”. D’ora in poi diremo “Veramente Santo sei Tu, Padre…”. Questo cambiamento, oltre a riproporre in maniera letterale il latino (“Vere Sanctus es, Domine”), cambia radicalmente il modo di porsi. Questa è una confessione, una professione di fede, un riconoscimento della santità di Dio. Prima di invocare, si riconosce che Dio è Santo, che già opera e già elargisce la sua santità. Allora si dirà “Veramente Santo sei Tu, Padre fonte di ogni santità santifica questi doni” non più “con l’effusione del tuo Spirito” ma con “la rugiada dello Spirito”. Il testo latino è chiaro: “Spiritus tui rore sanctifica”.  

Quando si sono apprestate la prima e la seconda versione, si pensava che in qualche modo bisognasse eliminare le metafore, perché ritenute superflue e inutili per andare subito al sodo, al significato senza il passaggio ritenuto “ambiguo” o “difficile” delle metafore. E allora siccome la rugiada bagna e da vita tutto ciò che incontra, ecco la traduzione come “effusione” dello Spirito. Ma effusione è un concetto mentre la rugiada è una metafora: il concetto parla alla testa, la metafora parla al corpo e al cuore. Chi ha un minimo di esperienza di campi e di prati e non soltanto di appartamenti sa bene che la rugiada bagna i piedi, bagna i campi… La fonte di questo testo è una fonte gallicana ma in realtà dietro ci stanno reminiscenze anticotestamentarie che alludono all’azione di Dio come rugiada che tutto penetra e vivifica. Queste sono alcune delle novità testuali che troveremo ma ce ne sono molto altre. Diamoci la pazienza di frequentare questo libro nei mesi che verranno.  

Un’altra domanda a cui hai già in parte risposto: le variazioni riguardano soprattutto chi presiede o qualcuna anche il popolo? 

Dico subito che le risposte dei fedeli non cambiano: saranno le stesse di prima. Questo è stato voluto appositamente per non creare troppi traumi nella prassi e nelle abitudini. E giustamente. Anche perché ci deve essere una comunione tra le generazioni che pregano, non ci devono essere stacchi troppo vistosi. D’altra parte però il Messale è molto più che un prontuario di testi: è un progetto rituale che la Chiesa consegna, in modo tale che le assemblee, presiedute dai ministri ordinati, possano celebrare l’Eucaristia. Dunque nel Messale è come prefigurata, disegnata quella trama gestuale di linguaggi, di sequenze rituali che va conosciuta, quasi interrogata ogni volta e poi sapientemente messa in atto. 

Dice bene l’Ordinamento Generale del Messale quando afferma che ogni celebrazione dovrebbe essere preparata, nell’ascolto del libro liturgico, da tutti coloro che in qualche modo hanno parte in causa nella celebrazione. Quindi c’è un lavoro previo e un lavoro durante la celebrazione: allora davvero il Messale appartiene a tutta l’assemblea, non soltanto livello ideale ma realmente. In questo senso acquista significato il “non detto”: quello che è scritto in rosso non si dice, ma descrive il gesto e l’azione. La fatica più grande è operare il passaggio dal libro inteso come testo all’azione! 

Allora è più corretto non dire “nuovo Messale” ma “nuova edizione”. Il Messale, di per sé, resta lo stesso, vero? 

Il Messale è quello di Paolo VI che ha avuto tre edizioni, il che è una cosa normalissima. Ricordiamo che il Messale di Pio V aveva un’edizione sola con alcuni successivi interventi, alcuni ritocchi normati anche da decreti pontifici, lungo i secoli. Invece il Messale di Paolo VI ha tre edizioni perché, oltre ai necessari ritocchi e correzioni che sono state apportate, è evidente che la Chiesa del Concilio sente il bisogno di rivedere se stessa e dunque il proprio modo di pregare e, se il caso, di ampliarlo e di integrarlo. 

Pensiamo solo a tutte le modalità che abbiamo per “fare l’eucaristia” cioè per la Preghiera eucaristica: quattro testi fondamentali, più le due cosiddette Preghiere eucaristiche della riconciliazione, più la quinta che è un testo quadriforme (nel prefazio e nelle intercessioni) e infine le Preghiere eucaristiche dei fanciulli. Tale arricchimento del Messale lungo questi cinquant’anni non può non essere considerato una ricchezza: chi dice il contrario ha solitamente pochissimi argomenti e non fa altro che esprimere le proprie nostalgie. 

A proposito di questi argomenti, mi viene proprio da chiederti: nella storia, i cambiamenti della liturgia sono avvenuti prevalentemente dal basso o dall’alto? 

Te lo chiedo perché chi è contrario alle Preghiere eucaristiche post conciliari, quelle che sono venute dopo il Canone romano (oggi chiamato Preghiere eucaristica I), sostiene che queste preghiere sono degli esperimenti a tavolino, quindi dei testi freddi, stesi da studiosi, liturgisti, biblisti, che hanno assemblato più o meno col loro gusto delle antiche tradizioni.  

Mentre nei secoli passati era la prassi che rendeva validi i cambiamenti nelle Preghiere eucaristiche. E’ consistente questa obiezione? E quale è la storia di queste mutazioni nei duemila anni di cristianità? 

Pensare che il Canone romano sia piovuto dal cielo come un meteorite è da ingenui! Anche il Messale Romano ha degli autori, anche se non li conosciamo: qualcuno che ha contribuito alla sua composizione e alla sua redazione. Le Preghiere eucaristiche post conciliari sono certamente un prodotto di esperti: questo è evidente. E’ chiaro che la gente comune non ha né il tempo, né le competenze per preparare Preghiere eucaristiche. Nella Chiesa ci sono ministeri e competenze diversificate. 

Bisognerebbe capire perché sono nate altre Preghiere eucaristiche! Non perché non piaceva più il Canone romano, non perché si voleva comporre o inventare a tutti costi. Una delle ragioni è molto chiara: il Canone romano è difettoso dal punto di vista della Epiclesi, cioè manca di un’invocazione esplicita, di una richiesta esplicita dello Spirito Santo, sia sui doni che su coloro che andranno a comunicarsi al Corpo e al Sangue del Signore. 

La questione si pose in questi termini: che cosa facciamo, inseriamo un’Epiclesi nel Canone romano? Fu soprattutto padre Cipriano Vagaggini a opporsi a questa ipotesi considerando che il Canone romano è un testo venerabile, un monumento della tradizione liturgica. Si è così pensato di lasciarlo così come era e piuttosto di affiancargli tre testi che esprimano chiaramente l’importanza dell’invocazione dello Spirito. Tema, questo, che la Tradizione occidentale, soprattutto nell’ultimo secolo, aveva in qualche modo mutuato dalla grande Tradizione orientale dove, invece, l’invocazione allo Spirito è  sempre stata decisiva nella liturgia. Ecco allora che nasce una Preghiera eucaristica II, che è addirittura più antica del Canone romano: è un testo che sostanzialmente troviamo nella Traditio Apostolica, un documento antichissimo della Chiesa. 

La Preghiera eucaristica III, invece, è di nuova composizione ed è un testo che presenta una dinamica sacrificale molto forte; in questo la si può accostare al Canone romano. Si chiede che lo Spirito faccia di noi il sacrificio che Dio gradisce. In questo modo si sottolinea il sacrificio di Cristo a cui si unisce il sacrificio della nostra vita, della nostra persona. 

E poi la Preghiera eucaristica IV: è un testo apparentemente nuovo, però in realtà il canovaccio è offerto dall’anafora di San Basilio che ancora oggi i cristiani di rito bizantino utilizzano in alcune circostanze dell’anno. 

Più avanti sono state pubblicate le due preghiere eucaristiche della riconciliazione e poi la preghiera per varie necessità, che nasce nel alla fine degli anni ‘70 dal cammino sinodale delle Chiese svizzere. 

Comunque noi sappiamo, dalla storia della liturgia, che molti elementi sono semplicemente la ricezione di qualcosa che già era vissuto dai fedeli… Pensiamo alcune feste dell’anno liturgico, nel Santorale, o ad alcune solennità come quella del Sacratissimo Cuore di Gesù. Una devozione che si era diffusa nelle Chiese di Europa e che poi diventa festa liturgica. Pensiamo alla liturgia della Domenica delle Palme: c’è un elemento romano che è la Messa della Passione e c’è un elemento di origine palestinese che è la Processione delle Palme. Si capisce bene che si tratta di due elementi giustapposti e che l’elemento della processione è un tratto prettamente popolare, tipico della liturgia di Gerusalemme, dove si amava celebrare sui luoghi della vita e della passione di Gesù. 

 Un altro esempio è piuttosto recente. Nella terza edizione tipica del Messale (testo latino), troviamo anche il Simbolo apostolico. Per noi italiani non c’è niente di strano perché eravamo già abituati dall’83 ad avere nel Messale, oltre al Credo niceno-costantinopolitano, anche il Simbolo apostolico, conosciuto soprattutto nella tradizione catechistica. 

E’ interessante che la Santa Sede abbia recepito, dalle Chiese locali, l’uso di utilizzare anche il Simbolo apostolico per la professione di fede.  

E’ vero che gli esperti fanno la loro parte ma è anche vero che esistono tanti fenomeni di ricezione della prassi dentro il libro liturgico. Una prassi che viene poi codificata e può darsi che questo sviluppo continui ancora.  

L’ultimissima domanda: ma questo cambiamento che ci sarà dalla prima domenica di Avvento è obbligatorio o facoltativo? 

Per le Chiese del Triveneto, appunto, l’obbligo scatta con la prima domenica di Avvento. Per tutta l’Italia con la domenica di Pasqua che è il 4 aprile. Sinceramente non mi piace molto l’iniziativa di alcuni parroci che già sono partiti con il Messale nuovo. La comunione e la comunanza nella preghiera è un tratto fondamentale della vita della Chiesa: si prega tutti allo stesso modo. Non è serio che nella stessa città ci sia chi dice il Padre nostro in un modo e chi lo dice in un altro! 

Non vedo il motivo di tanta fretta: manca poco ormai. Partire tutti insieme con un modo “parzialmente nuovo” di pregare credo sia un incentivo e anche una epifania, una manifestazione della comunione ecclesiale.

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