La gestione della pandemia

a cura di Giovanni Grandi

Cosa significa “gestire” una pandemia dal punto di visto delle Istituzioni, sia che si tratti di quelle laiche che di quelle religiose? Dobbiamo ammettere che non lo sapevamo e tuttora non lo sappiamo.

Sappiamo quel che è stato fatto a partire dal mese di febbraio del 2020, ma è un’esperienza davvero limitata per poter dire con sicurezza che cosa si sarebbe potuto o dovuto fare di diverso da quel che è stato attuato. Questa premessa è necessaria per qualsiasi ragionamento sulla situazione in cui ci troviamo: le analisi sugli eventi inediti chiedono tempi lunghi per maturare. Al di sotto di questi tempi ci sono le imbarazzanti prese di posizione a intermittenza dei personaggi pubblici che un giorno hanno invocato il “tutto aperto” e quello successivo il “tutti a casa”, dando unicamente voce ai (comprensibili) e diversi auspici o timori di tutti noi, ma senza provenire da una ampiezza e profondità di analisi. 

Detto questo credo ci siano diversi “nodi” su cui vale la pena di iniziare a riflettere e uno di questi è senz’altro la questione dei limiti del potere politico nel “disciplinare” le vite dei cittadini. 

Viviamo, come è noto, un tempo di “democrazia sospesa”: a tutti è diventato famigliare il DPCM – Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri –, uno strumento amministrativo rapido, che tuttavia nello stato di emergenza non è sottoposto al controllo del Presidente della Repubblica né passa attraverso il Parlamento. Attraverso questo strumento sono state prese diverse decisioni e, di fatto, poche persone hanno stabilito per tutti quali fossero le priorità, se la tenuta economica, l’istruzione, la cultura, le funzioni religiose, la socialità dei giovani, la cura per gli anziani… 

Si è trattato di scelte politiche che, tenuto conto degli elementi offerti dal Comitato Tecnico Scientifico, hanno cercato di mantenere degli equilibri tra esigenze diverse, tutte non semplicemente legittime ma anche “buone” e tuttavia impossibili da soddisfare simultaneamente. Questa situazione di scacco, in morale, è descritta nell’idea del “tragico dell’azione”, con cui il filosofo Paul Ricoeur ha sintetizzato una consapevolezza antica: spesso accade che decisioni ispirate a principi sensati si trovino, all’atto pratico, a confliggere e ad essere incompatibili con altre decisioni altrettanto ben ispirate. Quando Jacques Maritain, sul fronte politico, invitava a mettere a fuoco un “ideale storico-concreto” intendeva segnalare lo stesso problema: quel che è umanamente richiesto è compiere il bene possibile nelle condizioni in cui ci si trova. È qualcosa di più del lapalissiano “fare quel che si può”: è scegliere sapendo di scontentare, sapendo che inevitabilmente ci saranno dei costi, sapendo che alcuni di questi si paleseranno in modo imprevedibile e che occorrerà aggiustare le cose strada facendo. È la consapevolezza, appunto, degli aspetti tragici della vita, aspetti che – forse – avevamo un po’ troppo spensieratamente ritenuto di poter dribblare. 

Nel tragico, dunque, ci sono state delle decisioni che in ogni caso sono state prese, più o meno felicemente quanto ai punti di equilibrio raggiunti – ma questo, come dicevo sopra, è un problema diverso. Sono però state prese in base a dei criteri etici di fondo (rintracciabili peraltro nella Costituzione e nei principi di solidarietà e sussidiarietà): prima la tutela della vita e della salute e dopo le attese di svago e di evasione; prima la cura per i più fragili e per chi dei fragili si fa carico, e dopo (come ora in fatto di vaccinazioni) chi ha più possibilità di farcela con le proprie forze; prima chi sta più velocemente scivolando nella povertà e dopo chi ha risorse da parte a cui può attingere.  

Questi sono dei “prima” indubbiamente etici, legati a una certa visione morale del vivere e del vivere in società. Ci sarebbero potute essere infatti altri criteri ispiratori per dirimere la questione delle priorità e destinare le risorse nel frangente tragico: “prima gli Italiani”, solo per citarne uno ben noto, oppure “prima la popolazione produttiva e dopo quella inattiva”, o “prima i giovani che sono il nostro futuro e dopo gli anziani che la loro vita l’hanno già fatta”, o ancora, “prima chi è più resistente alle malattie e dopo chi è già a rischio e ha meno chances di farcela” (non sarebbe in fondo coerente con la filosofia darwinista della selezione della specie?)… 

Se alcune di queste ipotesi vi hanno procurato qualche minimo brivido di orrore, avete colto perfettamente la questione: in politica non c’è neutralità morale, e lo capiamo meglio quando siamo messi alle strette. Questo significa che il potere politico, sempre, ma specialmente in stato di emergenza, si impegna eticamente. 

Abbiamo tutti il timore dello “Stato Etico” pensando ai totalitarismi del Novecento, ma la Pandemia ci sta mostrando che lo Stato liberale secolarizzato – per usare qui una espressione cara a Ernst-Wolfgang Böckenförde – non è affatto eticamente neutro: fa propri dei valori e prende decisioni pubbliche in base ad essi. La domanda per noi allora diventa: su quale visione della vita si basa l’etica pubblica? A quale visione rispondono i decisori legittimamente eletti? Che cosa vale e va protetto e che cosa è accessorio, superfluo (non per questo, si badi “cattivo”) negli stili di vita e può essere più o meno a lungo sacrificato o sospeso? 

Saremmo disposti ad affidare le risposte a queste domande a un sondaggio, a un referendum su una piattaforma e ad accogliere poi semplicemente quel che per lo più la gente pensa? Oppure dovremmo riattivare altri percorsi, altri modi per attingere alle profondità delle intuizioni morali, rinunciando al puro principio democratico del registrare le opinioni della maggioranza? 

Se la seconda via vi sembrasse quantomeno più prudente (perché proprio le maggioranze votanti nel Novecento hanno via via dato corda – salvo poi pentirsene – alle versioni etiche dello Stato che giustamente temiamo), allora avete in mano gli elementi “scottanti” del problema, il “nodo” civile che volevo segnalare: la democrazia liberale vive riconoscendo al potere che la guida uno spazio di azione ampio, e tuttavia eticamente orientato. Ma questo orientamento etico non è un prodotto del consenso democratico. Queste fondamenta, questi “presupposti” – sempre usando le espressioni di Böckenförde – vanno riscoperte, riesplorate. Se non ci attiveremo in questo senso il rischio che corriamo è che dopo la stagione di limitazione delle libertà personali ci consegniamo ai primi che strilleranno “libertà” tacendo furbescamente dei “prima” di tipo morale a cui intenderanno ispirare la loro azione politica. 

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