Trent’anni e non li dimostra

di Davide Martini

 

 

Di solito si dice: trent’anni e non li dimostra. Ma è proprio così? Vi starete chiedendo di che cosa stiamo parlando; sgombriamo, intanto, il campo da equivoci. Non stiamo parlando di persone, ma di un progetto. Forse l’unico progetto di successo, in questi tempi di antipolitica nazionale ma soprattutto europea: il progetto Erasmus. Dal lontano 1987 il progetto Erasmus – acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students – dà la possibilità a uno studente universitario europeo di effettuare in una università straniera un periodo di studio legalmente riconosciuto dalla propria università.

Il nome del programma deriva dall’umanista e teologo olandese Erasmo da Rotterdam (XV secolo), che viaggiò diversi anni in tutta Europa per comprenderne le differenti culture. L’idea di permettere lo scambio tra studenti europei ebbe origine nel 1969 grazie all’intuizione dell’italiana Sofia Corradi (soprannominata «Mamma Erasmus»), pedagogista e consulente scientifica della Conferenza permanente dei rettori delle università italiane: questo ruolo le permise di far conoscere la sua idea in ambito accademico ed istituzionale.

Ho parlato, assumendomi piena responsabilità, del successo di questa iniziativa nel far incontrare studenti universitari dell’Unione europea e nel contribuire a cementare uno spirito europeo quanto mai in crisi in quest’ultimo periodo. Chi va fuori, infatti, non lo fa soltanto per imparare una lingua straniera (anche se per molti questo è l’obiettivo prioritario), ma decide di impiegare un periodo della propria vita per conoscere la cultura di un altro paese europeo con altri coetanei del continente, respirando un senso di “comunità europea”. E, a proposito dell’obiettivo prioritario per cui l’Erasmus è conosciuto, sappiamo bene quanto sia fondamentale per imparare bene e velocemente una lingua, immergersi nella cultura del paese dove questa lingua è parlata. Non è perciò un’esperienza banale quella dell’Erasmus, se fatta con la consapevolezza giusta e cioè di scoprire altri “mondi” e persone di diversi paesi che convergono in nuovi contesti, anche per loro, e vedere come interagiscono.

Ma di questo successo ho letto solo sui media o posso portare un’esperienza un po’ più personale?

Tendenzialmente, prudenza suggerirebbe di parlare di cose che si conoscono anche per esperienza personale perché, in questo caso, le osservazioni che si fanno sono più pertinenti. Per questo vi parlerò della mia esperienza di studente Erasmus dall’estate 1997 all’estate 1998 presso l’università di Coventry, nel Regno Unito. Dell’Erasmus avevo sentito parlare durante i miei studi universitari (corso di laurea in Storia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Trieste) e da subito avevo espresso la mia volontà di aderirvi. Forse perché, avendo avuto qualche problema con la lingua inglese al secondo anno di liceo scientifico, i miei genitori decisero nel lontano 1990 di spedirmi in Inghilterra per immergermi full-time nella lingua di Shakespeare. Anche se il primo anno fu più duro del previsto (viste le mie competenze linguistiche piuttosto scarse), negli anni successivi ci tornai e furono esperienze molto positive dal punto di vista sia linguistico che relazionale (sono ancora in contatto con una “famiglia” che mi ospitò nel 1991). Ecco perché mi sarebbe piaciuto fare l’esperienza dello studente universitario all’estero avendo già respirato un’atmosfera europea in queste vacanze-studio. Per fortuna, negli anni in cui partii, le richieste (soprattutto nel mio corso di laurea) non erano così numerose e perciò riuscii a orientare anche la destinazione (la mia prima scelta era il Regno Unito, in alternativa sarei potuto andare in Germania presso l’Università di Giessen). L’unica preoccupazione consisteva nell’accessibilità dei luoghi (tre anni prima, a causa di un investimento stradale, fui costretto su una sedia a ruote). Decisi allora di chiedere di poter alloggiare presso la casa dello studente (senza barriere architettoniche e con una toilette a norma) che sta proprio di fronte alla cattedrale della quale ci restano le rovine causate dal famoso bombardamento della Luftwaffe nella notte tra il 14 ed il 15 novembre 1940. A parte il cibo offerto dalla mensa universitaria (la colazione si “salvava”, mentre la cena lasciava un po’ a desiderare…) che “sostituivo” con opportuni inviti a cena di studenti/esse italiani e non, il resto dell’esperienza fu marvellous. Se mi chiedessero delle esperienze da ricordare, metterei ancora in prima fila l’anno trascorso in Erasmus. Sia per il contesto universitario internazionale (e non è vero, almeno nel mio caso, che in Erasmus si perde tempo) sia per le conoscenze e relazioni acquisite. Consiglieri a tutti gli studenti universitari di provare quest’esperienza. Assolutamente necessario sarebbe aumentare il budget complessivo destinato dall’Unione europea a questo progetto, perché le borse di studio coprono solo parzialmente il fabbisogno delle spese degli studenti e, al momento, ancora numerosi studenti non possono accedere all’iniziativa per mancanza di fondi. Viaggiare educa alla conoscenza del diverso da me, e per citare l’ultimo pezzo di Saviano, aiuta a non avere paura, perché «la paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza». Maestro Yoda.