Vacanze romane al tempo del coronavirus

di Andrea Dessardo

Il nome di questa rubrica, Vacanze romane, suona oggi beffardo: con queste belle giornate e tanto tempo libero il vostro affezionato corrispondente, come voi, è costretto a rimanersene in casa, con l’hashtag d’ordinanza.

Per cui questa corrispondenza potrebbe essere stata scritta da Roma come da qualsiasi altro posto nel mondo. Unici svaghi nel vuoto delle giornate che si susseguono l’una uguale all’altra, sono la spesa e lo smaltimento dell’immondizia, diventato quasi un rito.

Il provare per queste settimane questa vita mi aiuta però a comprendere i tanti anziani e i malati che una simile routine conoscono da anni, provando a spezzare la noia con visite frequenti dal medico, spesa a rate, vigilanza ai cantieri, passeggiate igieniche col cane: tutte abitudini che scioccamente irridevamo e di cui ora capiamo l’importanza. Questa strana e drammatica situazione ci impartirà, purtroppo o per fortuna, tante lezioni e dissiperà tante certezze.

La politica e l’economia ne usciranno probabilmente stravolte. Davanti alla catastrofe sociale che si prospetta dalla chiusura forzosa di quasi tutto il sistema produttivo nazionale, il governo, decreto dopo decreto, è passato dal mettere a disposizione tre miliardi, poi sette e mezzo, infine venticinque, che comunque impallidiscono di fronte ai cinquecentocinquanta dichiarati dalla Germania e ai mille – una cifra che sembrava possibile sono nei fumetti di zio Paperone – annunciati da Donald Trump. Così abbiamo capito che i soldi, volendo, si trovano sempre, perché i soldi non sono una quantità data, e che non è certo il deficit a far muovere lo spread, che far debito non fa necessariamente crollare le borse e che se anche le borse crollano (com’è successo, ma per le dichiarazioni di Christine Lagarde) non è poi la fine del mondo. Tanti totem che ci avevano imposto di adorare sono stati abbattuti in un paio di settimane; il governo, in pochi giorni, ha scritto quella che è nei fatti nuova legge finanziaria, nonostante avessimo imparato che non si può votare in autunno perché se no si va in esercizio provvisorio.

Quando, due giorni fa, sono uscito l’ultima volta a gettare la spazzatura, ho scoperto i balconi del mio quartiere impavesati da decine di tricolori e da qualche arcobaleno per il training autogeno («Andrà tutto bene», come cantava Max Pezzali in uno dei suoi pezzi non tra i migliori); puntuale ogni sera, per combattere la noia, sfogarsi un po’ e “fare gruppo”, se non proprio comunità, s’improvvisa qualche flash mob alle finestre. Si riscopre così un grottesco senso d’appartenenza, che fa appello ora all’unità nazionale, ora semplicemente all’identità rionale, ora alla frustrazione antieuropeista e antiliberista, che si sfoga ampiamente anche sui social network, ormai senza trovare alcun freno. Il tanto temuto “sovranismo” rientra in gioco in forme nuove, sdoganato dalle bandiere di quanti magari, fino a non molto tempo fa, lo dileggiavano o vituperavano, e non sembra più così minaccioso, è anzi un superficiale fattore d’aggregazione sociale e di un’embrionale e istintiva forma di solidarietà. Del resto, se si temeva una deriva autoritaria l’anno scorso, difficilmente sarebbe potuta essere più dura di quella che stiamo sperimentando ora, con la sospensione del Parlamento e la pressoché totale limitazione delle libertà personali.

Nel leggere i giornali si trasecola davanti a tanti riposizionamenti di autorevoli commentatori: sono bastate due settimane (ma in effetti al primo ministro era bastato anche meno per cambiare maggioranza). Oggi tutti sembrano esaltare il carattere e la nostra autonomia nazionale. In particolare è l’atteggiamento attorno all’Unione europea che lascia sorpresi: improvvisamente si osa denunciarne i limiti, il tabù è caduto, l’Ue non è più intoccabile. Del resto, è oggi arduo difenderla mentre si contemplano le macerie di una struttura, che sembrava inespugnabile, crollata alla prima scossa di terremoto, suonando il via libera agli egoismi. Forse l’immagine più eloquente dello sfacelo è la sospensione degli accordi di Schengen, sospesi unilateralmente ma in maniera quasi coordinata da tutti i paesi; e pareva un pilastro inamovibile della democrazia che volevamo costruire. E così il feticcio del vincolo del 3%, spazzato via non appena anche la Germania ha preso contezza della gravità della situazione: si salvi chi può, tutti a casa, ognuno a casa sua. E allora, in che cosa avevamo creduto? In che cosa dovevamo credere?

Che ne è della vita democratica, se abbiamo accettato di farci togliere le più ovvie libertà senza ribellarci minimamente? E fino a quando lo accetteremo? Non so quanto a lungo potremo andare avanti con i flash mob al balcone, presto non ci basteranno più. Ciò che più mi meraviglia è la venerazione per l’uomo di potere, che può decidere del nostro destino, specie ora che la leadership è incarnata da una figura scialba come Conte, che gode di una popolarità incredibile: nonostante i suoi evidenti limiti e le molte ambiguità della sua ascesa politica, sempre più cittadini gli concedono fiducia, affidandosi a lui acriticamente perché si sentono in pericolo. Lo spirito da union sacrée incoraggia persino la delazione, prassi odiosa che non manca mai nei regimi polizieschi, e che mi fa particolarmente paura: oggi chi è sorpreso a fare semplicemente due passi o una breve corsetta in solitaria, rischia di essere denunciato come traditore («procurata epidemia»!), con una violenza inaudita, dettata insieme da paura, invidia, frustrazione. Comincio a comprendere cosa spingesse in tempo di guerra a denunciare i vicini di casa al minimo sospetto. I nostri movimenti sono controllati sugli agganciamenti alle celle telefoniche, come neanche la Stasi faceva (certo, la tecnologia non lo consentiva), e troppi ne sono pure contenti, lo vedono come un progresso! Chi esce per strada rischia più di un ladro o di uno stupratore e la gente applaude, ma non è assurdo tutto ciò, non vi pare di vivere in un film distopico?

Questo momento passerà, ci vorranno forse alcuni mesi, ma passerà: ma abbiamo visto con chiarezza com’è facile perdere tutto, arrivando persino a convincerci che sia giusto così. Abbiamo il dovere intanto di prenderci cura dei nostri cari e di coltivare le cellule elementari delle nostre comunità, lottando perché a prevalere non siano le paure e perché a guidare le scelte siano la ragione e la conoscenza del bene comune.

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