Sine dominico non possumus

di Michela Brundu

Sono ormai quattro settimane che in Italia non si celebra la Messa “cum populo”. Quattro non consecutive: ce n’è stata una di ripresa, la prima di marzo. E poi il lockdown.

La gente è a casa e dunque ha modo di scrivere fiumi di inchiostro digitale anche su questo tema. La pandemia è un vero frullatore: tutti gli schemi sono saltati. Frange di conservatori e di progressisti concordi nel criticare la pavidità dei vescovi; altre falangi, sempre di opposti schieramenti, convergono sulla necessità di limitare il contagio con ogni mezzo e di posizionare le direttive della gerarchia cattolica all’interno delle norme emergenziali. Sul web ci sono interi blog, interviste, articoli dedicati all’argomento e ognuno dice la sua.

Non è originale iniziare qui citando i martiri di Abitene: 49 cristiani che, nell’Africa proconsolare del IV secolo, celebravano in segreto l’Eucaristia contravvenendo alle leggi imperiali. Vennero scoperti, interrogati, giudicati e giustiziati. Alla domanda dell’accusatore sul perché avessero insistito in un reato così grave, sapendo di rischiare la vita, uno di loro rispose: “Sine dominico non possumus”.

E questa frase è risuonata nei secoli successivi della cristianità: ripetuta, interpretata, meditata. Si è arricchita e dilatata. In fondo, che cosa “non possumus”? La tradizione e la traduzione la completano come “senza la domenica non possiamo vivere”. Ma si può aggiungere “senza la domenica non possiamo sapere chi siamo, non diamo un senso agli altri giorni, non sappiamo a Chi apparteniamo, non viviamo il legame indissolubile con i nostri fratelli in Cristo”.
La domenica ci definisce come credenti e come persone, come pellegrini e non come viandanti. L’incontro comunitario con la Scrittura ci rende ascoltatori rinnovati, noi stessi Parola vivente, così come lo spezzare il pane ci rende unico Corpo e compagni (“cum-panis”) nell’avventura della vita.

E dopo questa granitica tradizione bimillenaria, ora niente Messa! E proprio in Quaresima.

A nessuno sfugge che stanno proliferando modalità “alternative”: Messe in streaming, gruppi WhatsApp, spontanei o strutturati, che diventano luoghi di commento alle Letture del giorno, social inondati da meditazioni e riflessioni. La gente si arrangia e si ingegna con creatività e insospettabile fervore. E’ pur vero che all’Eucarestia (celebrata e partecipata) non c’è alternativa neanche pallidamente confrontabile. E allora a che cosa è dovuto questo fenomeno?
Ecco, una cosa nuova germoglia: la fame.
Il prolungato “digiuno eucaristico”, come ogni digiuno, rende lucidi e percettivi. Sfronda le antiche abitudini, la consuetudine un po’ bigotta che ci fa mettere il vestito buono per andare in chiesa alla domenica, tornando a casa col vassoio di pasticcini comprati nel bar accanto, facendoci sentire “a posto”. La consuetudine che ci fa brontolare per la predica del parroco (troppo lunga o troppo corta, troppo alta o troppo casereccia), per il coro che non ha preso quella nota o per la vicina di banco che chiacchiera a voce alta. Un’abitudine che, in fondo, rischia di serpeggiare nelle nostre coscienze, addormentandole, e – chissà – di far deragliare l’anima e trasformarci nei bravi cristiani della domenica invece che in credenti abbagliati da un miracolo indicibile: Dio che parla all’uomo, che appare in forma umana e che diventa compagno di strada dell’umanità.
Forse era ora di fare un digiuno così: duro, difficile da accettare, roccioso e spinoso. Senza i fronzoli consolatori della vita parrocchiale, riesce a rimettere al centro una vita di Chiesa più convincente, di popolo in preghiera tutto rivolto al Signore. Le relazioni non spariscono: si trasformano e diventano più limpide e essenziali. Più spoglie e più vere. Se saremo fortunati, potremo addirittura recuperare la dignità sacerdotale del nostro battesimo sulla quale si è forse posato il leggero velo impolverato del clericalismo.
Attraversiamo un deserto in cui ritrovare noi stessi: come esseri umani costretti a una sosta coatta, come credenti, come cristiani e, perché no, come Chiesa. Un’occasione unica per rimettere la palla al centro.

Senza domenica non possiamo vivere, e infatti la ritroveremo presto, la domenica: nella sua pienezza celebrativa. La gusteremo di nuovo, tutti assieme e con i nostri pastori che, nella solitudine delle chiese vuote, ora celebrano – lo speriamo – per noi.

La vita non sarà più la stessa: segnati dalla reclusione, in spazi troppo stretti o troppo larghi; plasmati dall’affollamento familiare o dalla forzata solitudine; scavati dalla paura e dalla speranza. Saremo cambiati. Per chi resterà sano e per chi sarà guarito: la vita non è tolta, ma trasformata. Vedremo come.

Auguri.

Torna in alto